Associazione Culturale Due Sicile – Sede di Milano
30 ott
“Mi emigro per magnar…”
In uno dei più importanti libri sull’emigrazione, Sull’Oceano, di Edmondo De Amicis, pubblicato nel 1889, un emigrante lo dice in maniera molto efficace: “Mi emigro per magnar”. Lo avevano esortato a restare, perché il governo avrebbe bonificato la Sardegna, la Maremma e l’Agro romano. Ma lui aveva risposto: “Ma se intanto mi no magno! Come se ga da fare a spetar o no se magna?”‘. Indubbiamente, non era questa la sola ragione. Molti giovani emigravano per sottrarsi alle famiglie, altri speravano di fare fortuna, altri, infine, erano costretti ad allontanarsi dall’italia per ragioni politiche.
Ma la grande maggioranza di coloro che lasciarono l’Italia negli ultimi decenni dell’ottocento e nei primi del novecento lo fece perché non riusciva più a viverci. L’emigrazione ha rappresentato una valvola di sicurezza che ha impedito l’esplosione di rivolte nelle campagne. Ma in un primo tempo le classi dirigenti guardarono ad essa con preoccupazione, e non solo per motivi umanitari. Il 23 gennaio 1868 fu diramata ai prefetti una circolare in cui si ordinava di non lasciar partire i lavoratori italiani che non mostrassero di avere un’occupazione assicurata e sufficienti mezzi di sussistenza. La questione fu discussa alla Camera il 30 gennaio. Un deputato affermò che la gente espatriava non “per vaghezza di far fortuna”, ma “piangendo e maledicendo ai signori e al governo”; un altro, ligure, sostenne invece che il problema non doveva essere posto in questi termini. Gli emigrati contribuivano al benessere della Liguria.
Emigrati italiani nel porto di partenza
Accanto a poveri contadini partivano per l’America meridionale “persone indurite ed abituate al lavoro”‘, che accumulavano laggiù un discreto capitale, fondando case di commercio e fabbriche. Sia coloro che sostenevano l’utilità dell’emigrazione sia quelli che la condannavano avevano dietro le spalle interessi di determinati gruppi economici da difendere. Gli armatori respingevano ogni limitazione. Quelli genovesi, in crisi per la concorrenza della flotta mercantile inglese nel commercio dei grani del Mar Nero e del Mediterraneo orientale, vedevano nel trasporto degli emigranti al Plata un rimedio alla crisi.
In questi ambienti, a opera di Jacopo Virgilio, nacque la teoria dell’espansione fondata sull’emigrazione: il commercio tra Italia e Sudamerica era aumentato proprio grazie alle case commerciali fondate dagli italiani in Brasile, Cile, Guatemala, Haiti, Guiana, Perù, Venezuela, e soprattutto Argentina e Uruguay.
“Sull´oceano” e verso l´America
Il viaggio era un’esperienza traumatizzante, o almeno molto dura. E non solo per quei contadini che non avevano mai visto il mare, ma anche per gli altri. Nel 1888 sul piroscafo “Matteo Bruzzo”, partito da Genova per il Brasile, morirono 18 emigranti per mancanza di viveri; altri 27 morirono per asfissia nel 1889 sul “Frisca”. Nello stesso anno, un giovane medico, Teodoro Ansermini, che prestava servizio sulla nave “Giava”, in viaggio per Buenos Aires, rilevò l’assenza di pulizia, l’affollamento dei malati in uno spazio troppo ristretto, la mancanza di acqua e aria. Durante la navigazione, vi furono ammalati di tifo, di vaiolo, di difterite. Una commissione nominata dal ministero della Marina trovò vere solo in minima parte le accuse del medico e ne censurò il comportamento. Ma proprio nel 1889, con la sua opera Sull’oceano Edmondo De Amicis portò anche questo problema all’attenzione della più vasta opinione pubblica.
Una volta arrivati in Sudamerica gli immigrati erano ospitati nelle “case d’immigrazione”. A Buenos Aires, l’Asilo era un immenso baraccone di legno, dove ricevevano una razione sufficiente di cibo, dormivano in ampi cameroni e venivano curati, se ammalati. Ma le donne erano separate dagli uomini, e la separazione aumentava il senso d’insicurezza. Inoltre, dopo cinque giorni, gli immigrati dovevano cercarsi un’abitazione e un lavoro. E qui intervenivano spesso altri speculatori.
In Sudamerica gli immigrati italiani non dovettero affrontare gravi problemi di carattere etnico o razziale, anche se l’inserimento non fu sempre facile. Le società sudamericane, e quella brasiliana ancor più di quella argentina, erano società in formazione, dove i nuovi venuti non venivano a scontrarsi contro strutture consolidate. E non si sentivano nemmeno portatori di una civiltà superiore, se non, talvolta, nei confronti degli Indios.
Il Conte Verde fece la traversata inaugurale da Genova a Buenos Aires nel giugno del 1923.
In Argentina l’immigrazione italiana fu più scelta che in Brasile. Nel 1896 un deputato, il radicale Pantomo, affermò alla Camera che le sue condizioni morali e materiali erano assai migliori che in Brasile, ma che, per certi aspetti, restavano gravi: “i facchini, i lustrascarpe, i menestrelli da strapazzo” erano reclutati tra gli italiani che accettavano, di fronte agli altri emigranti, questo stato di inferiorità. Ma questo rischiava di diventare un luogo comune. Lo ritenevano falso, nel 1910, due osservatori della realtà argentina, Cittadini e De Duca, scrivendo a proposito dell’operosità italiana in Sudamerica: “Non è vero che l’italiano all’estero faccia soltanto quelli lavori minori”. E già nel 1896 un altro pubblicista, Scardin, aveva ricordato che in Europa chi nasceva povero, quasi sempre moriva povero. In Sudamerica, invece, c’erano molte occasioni da cogliere.
Italiani in Argentina
Con le associazioni e con i giornali cercavano di formare delle isole di italianità. Il 21 settembre del 1895 un giornale di Buenos Aires, La Nacion, diede ampio rilievo alla celebrazione del 20 settembre I anniversario della conquista di Roma da parte dello stato italiano: il ripetuto scoppio di petardi e razzi in tutti i quartieri della città aveva annunziato fin dalle prime ore che la comunità italiana si preparava a festeggiare la ricorrenza “con inusitato splendore e con il maggior entusiasmo”. La grande quantità di bandiere, in certi quartieri, dava a Buenos Aires l’aspetto di una città italiana. Non era un’esagerazione. Nel 1895, su 663.864 abitanti ben 181.361 erano italiani. Il più italiano era il quartiere di Boca. La popolazione era povera, ma gli italiani occupavano le posizioni migliori: erano italiani l’80 per cento dei commercianti e il 70 per cento degli impiegati. Nello stesso 1895, su 143 pubblicazioni periodiche, 13 erano scritte in italiano.
Reazione della borghesia argentina
Quale fu l’atteggiamento degli argentini, della popolazione creola originaria o anche degli immigrati spagnoli, di fronte a quella che in certi momenti poté sembrare una vera e propria invasione? Nel 1899 un medico e sociologo, Ramos Mejía, espresse le preoccupazioni della classe dirigente. Gli immigrati (che egli considerava in maggioranza italiani) erano tanti e ormai invadevano tutto: i teatri di secondo e terz’ordine, le passeggiate, “perché sono gratuite”, le chiese, “perché sono credenti devoti e mansueti”, le vie, gli asili, le piazze, gli ospedali, i circoli e i mercati. La cosa più preoccupante era che da questa massa amorfa stava emergendo, sia pure faticosamente e lentamente, una élite: per necessità o per ambizione, gli italiani affrontavano ogni difficoltà e riuscivano a farsi strada.
La loro ascesa sarebbe stata temibile, secondo Ramos Mejía, se non vi fosse stato l’intervento della cultura nazionale argentina. Poco più di dieci anni più tardi, nel 1913, un altro membro della classe dirigente argentina, Rodríguez Larreta, espresse analoghe preoccupazioni: egli aveva davanti agli occhi la prima generazione dei figli degli immigrati che aveva ormai possibilità molto maggiori di affermarsi, e si rendeva conto che, grazie al suo numero e alle sue capacità, un giorno essa sarebbe diventata classe dirigente. Si rendeva conto che si trattava di un’evoluzione inevitabile, ma riteneva che sarebbe stato bene non accelerarla.
Seconda generazione: i figli argentini
Le tesi dell’argentinizzazione si affermarono tra il 1900 e il 1910, con una politica a cui Ramos Mejía diede anche un contributo pratico. La necessità di adottare misure repressive trovò fermi sostenitori anche per il pericolo che per la borghesia argentina rappresentavano le idee degli immigrati anarchici e socialisti. Nel 1902 e nel 1910 furono approvate leggi repressive. In quest’occasione gli immigrati trovarono il sostegno di una parte del parlamento italiano e La Patria degli Italiani, il maggior giornale di Buenos Aires in lingua italiana, riportò le interrogazioni di alcuni deputati che chiedevano al ministero degli Esteri d’intervenire, per impedire arresti e espulsioni.
La nave é presta per andare a fare l´America…
Un’altra ragione dei tentativi dì parte argentina di limitare le possibilità di affermazione degli immigrati era però data dal fatto che nella comunità italiana si andavano diffondendo tendenze nazionalistiche, che non erano soltanto una risposta alla politica aggressiva del governo argentino, ma contenevano esse stesse una certa carica di aggressività. Era irritante, per gli argentini, soprattutto la pretesa di certi ambienti italiani di essere portatori di una cultura superiore.
Si può ricordare, come un significativo esempio di questi atteggiamenti, un decalogo patriottico che Ferdinando Martini fece pubblicare nel 1910 su La Patria degli Italiani. Nel decalogo si ricordava agli immigrati che la loro vera patria era l’Italia, e li si esortava a celebrare le feste nazionali, a onorare i rappresentanti ufficiali dell’italia, a non modificare il loro nome, a insegnare la lingua italiana ai figli e a sposare un’italiana.
1910: Gli italiani sono cittadini argentini
Ma proprio nel 1910 diventò presidente della repubblica argentina Roque Saenz Peña. Egli fece approvare una legge elettorale che concedeva il suffragio segreto e universale. Con esso gli immigrati diventavano cittadini argentini di pieno diritto, in grado di influire sulle scelte politiche del Paese. L’assimilazione fu facilitata e, se rimasero vive a lungo tradizioni italiane, la vera patria cominciò a essere l’Argentina. Del resto, era ormai cresciuta una generazione che della patria d’origine conosceva ormai soprattutto ciò che ne narravano i padri.
Ragioni dell´emigrazione in Argentina
Nei primi decenni dell’ottocento aveva riguardato gruppi limitati di persone che vi si recavano soprattutto per ragioni di affari. Questa fase è stata definita “ligure” per la prevalenza di genovesi, interessati al traffico commerciale. A partire dal 1820 vi fu anche un’emigrazione politica, che si intensificò dopo il 1848. La partecipazione degli esuli alla vita civile del Sudamerica, in difesa dell’indipendenza e della libertà di quei popoli, è il dato che contraddistingue questo tipo d’emigrazione. Gli esuli non chiedevano soltanto un asilo, un rifugio, ma portavano ai popoli che li accoglievano il contributo della loro passione politica e delle loro idee. L’esempio più noto è ovviamente quello della “legione italiana” di Garibaldi, ma se ne potrebbero ricordare anche altri. La seconda fase ebbe inizio col 1870 e durò fino al 1890. Essa è stata definita “nord-occidentale” per la prevalenza di emigranti provenienti dall’Italia del nord. Dal 1890 al 1920, infine, vi fu, invece una prevalenza di meridionali. La grande emigrazione che ebbe inizio nel 1870 è legata ai processi di trasformazione che ebbero luogo nelle campagne. Si discute se questa ondata emigratoria sia stata causata più da fattori interni o esterni, cioè se si sia trattato di un processo di espulsione dall’Italia di masse che non riuscivano più a trovarci le condizioni elementari di sopravvivenza, o a un processo di attrazione da parte della “Merica” (così, di solito, gli emigranti definiscono nelle loro lettere la nuova terra) su persone che volevano migliorare le loro condizioni di vita.
È indubbio che in quei decenni ci fu un peggioramento di queste condizioni e che esse sarebbero state ancora più gravi se la pressione demografica non avesse trovato sfogo nell’emigrazione. Certo, non si possono nemmeno escludere, tra le motivazioni che spingevano a lasciare l’Italia, la volontà di tentare la fortuna, spesso sull’esempio di compaesani, sia che l’avessero già trovata sia che la immaginassero, nel Sudamerica, vicina o almeno possibile. La documentazione disponibile, e soprattutto le lettere degli emigranti che finora sono state pubblicate, mette in rilievo soprattutto le difficoltà della nuova vita e, insieme, quelle che gli emigranti si lasciavano alle spalle, ma questo non è un elemento decisivo a favore della tesi dell’espulsione, perché una parte notevole di questa documentazione fu raccolta da quanti, per i loro interessi economici, erano contrari all’emigrazione, alla perdita di manodopera a buon mercato. Resta tuttavia, al di là di qualsiasi revisione storiografica, il fatto che l’abbandono in massa delle campagne, il distacco dalle comunità d’origine, non fu certo un fenomeno indolore. Il calcolo della ricchezza che gli emigrati apportarono all’Italia con le loro rimesse non deve far dimenticare come fu difficile e faticoso, per la grande maggioranza, risparmiare e accumulare qualcosa.
Arrivo di una nave italiana al porto di Buenos Aires
La ragione di fondo della fuga dall’Italia è stata pur sempre quella che Edmondo De Amicis raccolse dalla voce di un emigrante: “Di peggio di come stavo non mi può capitare. Tutt’al più mi toccherà di far la fame laggiù come la pativo a casa”.
Un pó di storia argentina
Nel 1853 l’Argentina divenne una repubblica federale. Lo Stato Federale profuse molto impegno nel progetto statale di colonizzazione agricola che attirò gran parte delle popolazioni europee migranti: di questo periodo i primi tentativi di immigrati italiani di acquisire lotti fondiari dalle province o direttamente dallo stato argentino.
All’inizio si trattò di piccoli gruppi di persone ma tra il 1860 e il 1878 l’acquisizione di nuove grandi porzioni di Pampa diede una notevole spinta alla politica fondiaria governativa.
Nelle zone di Corrientes fino dal 1853 molte società private di colonizzazione subaffittavano alle famiglie coloniche. Fu così che in Argentina si diffuse verso il 1865 il sistema applicato le prime volte a Corrientes nel 1853: l’anticipazione agli emigranti delle spese di viaggio e di quelle necessarie per impiantarsi nel lotto assegnato da parte delle società private.
La “Comision de Inmigracion” nacque per aumentare la produzione agricola e favorire l’immigrazione contadina nel paese. La produzione agricola del paese era insufficiente al fabbisogno nazionale: i cereali venivano importati pagandoli col ricavato della vendita delle carni. I capitalisti inglesi dietro ai “gauchos” dediti all’allevamento del bestiame ed alla pastorizia erano in netto contrasto con la politica agricola del paese e spesso cercarono di ostacolarla.
Nella Provincia di Buenos Aires già dal 1870 un provvedimento assegnava a giovani coppie di agricoltori terreni gratuitamente a condizione che vi costruissero una casa e che li coltivassero ma fu la legge varata nel 1876 dal Governo argentino sulla colonizzazione e l’immigrazione che spinse molti a muoversi dall’Italia e dalla Calabria per tentare la fortuna in Argentina.
La legge prevedeva che i territori nazionali venissero divisi in lotti di quarantamila ettari per insediamenti urbani e suburbani, offrendo sia la possibilità di assegnazioni di terreno gratuite, sia pagabili ratealmente a prezzi molto contenuti.
Per gli acquirenti gli unici obblighi erano quelli della residenza e della coltivazione delle terre; la preferenza per le origini contadine era facilmente superata poiché quasi tutti i braccianti agricoli del Meridione d’Italia erano allora in cerca di lavoro. Secondo il censimento del 1895 su un totale di 407.503 proprietari agricoli più di un quarto erano di nazionalità straniera e fra essi 62.975, più della metà, erano Italiani.
Quando nel 1882 il governo decise di concedere gratuitamente venticinque ettari di terreno a nuclei familiari, i coloni cercarono di ottenere in concessione le terre più vicine alle coste: da Santa Fe a Buenos Aires, da Corrientes a Entre Rios, la politica agricola delle Provincie argentine attirò il più grande flusso di emigranti contadini della storia moderna.
Belgrano, padre dell’Argentina
Nato a Buenos Aires nel 1770, figlio di Domenico Belgrano Peri, un ligure di Capo d’Oneglia (oggi Imperia), Manuel Belgrano è considerato con José de San Martin e Simon Bolivar uno dei padri dell’indipendenza dei paesi sudamericani dalla Spagna.
Inventore nel 1812 della bandiera argentina bianca e azzurra, è assurto a simbolo della nostra comunità al punto che la sua data di nascita (3 giugno) è diventata una festa: la Giornata dell’Emigrante Italiano.
Amato in Argentina, è il capofila di una lunga lista di nostri connazionali che hanno avuto un ruolo di spicco, dal presidente Carlos Pellegrini a scrittori come Ernesto Sabato, da grandi musicisti del tango come Astor Piazzolla a calciatori come Antonio Valentin Angelillo, da mitici piloti automobilisti come Juan Manuel Fangio a industriali come Agostino Rocca.
La terra promessa…
L’Argentina è per i lavoratori del vecchio mondo la terra promessa; gli italiani sono i più coinvolti in questa corsa sfrenata sbarcando negli anni dall’1886 al 1889 in quantità crescenti (43.000, 67.000, 75.000, 88.000). Nel 1889 la prosperità arriva al culmine, e nel 1890 arriva la crisi. L’afflusso in Argentina fu il maggiore tra quelli verso le Americhe. La maggior parte degli immigrati provenne dall’Italia settentrionale. Il principale periodo dell’immigrazione italiana in Argentina da un punto di vista quantitativo è quello che va dal 1876 al 1925. Dai censimenti si vede che la città di Buenos Aires ospita contingenti di italiani.
Ma che cosa erano andati a fare tanti italiani a Buenos Aires? Innanzitutto “colui che sbarca nel porto di Buenos Aires non è mai un turista” [Daireaux]. La massa degli immigranti italiani si inseriva nell’industria (soprattutto abbigliamento, mobili e affini e costruzioni) e nei servizi.
“Dove sono necessarie un poco di intuizione e di immaginazione, come nella fabbricazione di mobili artistici, gli italiani hanno la prevalenza” dice Einaudi (1900) con orgoglio patriottico. Gli italiani spiccano nella lavorazione del legno e per quanto riguarda quella del ferro, non solo emergono, ma praticamente la inventano. Nella città di Buenos Aires, nel 1895, sono di italiani 25 delle 29 fabbriche di letti, quasi tutte quelle di orologi per campanili, l’unica fonderia di campane, 2 delle 3 fabbriche di tubi di piombo, e l’unica di ferro, le 3 più importanti fabbriche di cucina a legna, una di quelle di ferro galvanizzato, una delle due di biciclette e le uniche due che preparavano apparecchi per l’illuminazione a gas e a elettricità. Sembra inevitabile menzionare qui la figura di Pietro Vasena, non solo perché parlare della produzione relativa al ferro alla fine del secolo a Buenos Aires, significava menzionare questo nome, ma perché, oltretutto, il suo caso è, forse, l’esempio più evidente del “self-made man” in queste terre e, sicuramente, la fonte di ispirazione dei sogni di grandezza di ogni immigrante italiano che sbarcava nel porto di Buenos Aires. Pedro Vasena -scrive Einaudi- “arrivò, tredicenne, in America, senza un soldo, senza conoscenti e, in capo a pochi anni diventò padrone di ben tre grandi stabilimenti”. Lombardo, di Lecco, “di statura regolare, ma con muscolatura atletica, cultura poca o nessuna, ma una mente sveglia, attenta, straordinario ingegno e gran senso della vita e del positivo”, era padrone, nel 1898, di tre stabilimenti le cui rispettive superfici coprivano 10.000, 9.000 e 15.000 metri quadrati. Figurano, tra le sue opere, il maggior mercato aperto della Repubblica, il mercato alimentare, il mercato della frutta del paese di Bahía Blanca, la fabbrica di caldaie e depositi di petrolio della New Gaz Company di Buenos Aires, l’armatura del gran ponte di Catamarca di 53 metri di luce in una sola campata e tante altre opere della stessa levatura. Gli stabilimenti di Vasena lavorano, nel 1898, ferro fuso, acciaio, ferro e bronzo per ventimila tonnellate e impiegano tra i 450 e i 500 operai.
Altro successo sorprendente è quello della famiglia Canale nel campo dell’alimentazione, o quello raggiunto dal colosso dell’industria argentina creato nel 1888 da un gruppo di italiani per la fabbricazione dei fiammiferi… Paritaria è anche l’importanza di commercio e artigianato italiano a Buenos Aires (nel 1895 il 62% dei negozi sono italiani).
Secondo Einaudi il primo tipo di immigrante italiano in Argentina è il marinaio. Gli italiani si portano dietro in Argentina le famiglie, le idee, l’ambizione di risparmio e prosperità e la voglia di star bene.
Dice “La Nación”del 20 settembre 1895: “sappiamo bene che nessun popolo della nostra razza ha saputo vincolare alla propria terra la popolazione italiana meglio di quanto ha fatto la Repubblica Argentina, le cui vastissime campagne e sorprendenti risorse offrono un avvenire sicuro a tutti i lavoratori… alcune centinaia di migliaia si occupano di lavori rurali o industriali di questo paese, si legano ad esso non solamente per interesse, ma anche per affetto, si affiatano con noi, assimilano persino le abitudini dei gauchos e, per tutto ciò, si rivelano un fattore di grande importanza per i nostri rapidi progressi…”
La grande maggioranza dell’immigrazione venne a costituire quelle migliaia di piccoli proprietari o fittavoli di terreni o i numerosi titolari del piccolo commercio e dell’industria di tipo artigianale, di carattere spesso familiare. Pochi poterono arricchirsi tanto attraverso il commercio o l’industria da acquistare terre in quantità tali da rientrare tra i grandi proprietari (e tentare così l’accesso alla classe sociale che dirigeva le sorti del paese).
Un caso tipico fu il popolamento, soprattutto da parte di coloni italiani, di estese superfici che prima erano quasi deserte e che da allora in poi sarebbero diventate lo scenario della colonizzazione agricola più caratteristica e importante della storia argentina. Così gli agricoltori italiani si stabilirono a decine di migliaia a Santa Fe e nelle zone adiacenti della provincia di Córdoba (e la popolazione italiana in queste province passerà da 4.600 persone nel 1869 a 240.000 nel 1914).
Parimenti, l’apporto degli industriali italiani in questa fase fu notevole in molti settori e decisivo in altri; vennero allora poste le basi di grandi stabilimenti nel settore metallurgico e meccanico, dell’alimentazione, della chimica, della carta, della ceramica, della vitivinicultura, etc., un buon numero dei quali ancora oggi funziona tra le imprese più importanti del paese.
Immigrati con preferenza per le città (con un conseguente rapido processo di urbanizzazione) che portava anche fenomeni complessi di trasformazioni demografiche, economiche e sociali, come l’avvento delle classi medie. Gli italiani dettero vita ad una fase piena di vita, di impulsi, di progetti e di speranze, una fase piena di realizzazioni.
Lo sviluppo dell´economia argentina
Ruoli importanti nei settori dell’economia, dell’agricoltura; ruoli importanti di mani e di menti degli italiani nell’industrializzazione. Non si dimentichi che l’Argentina si era affacciata alla vita economica internazionale soprattutto come un paese esportatore di cereali e di carne e la produzione agro-zootecnica non poteva esistere senza che intervenissero nella sua realizzazione almeno due fattori: capitali e uomini. I primi dovevano essere destinati alla creazione delle indispensabili vie di comunicazione (di cui il paese mancava quasi completamente, eccetto nelle zone vicine ai fiumi navigabili) e di tutte le infrastrutture necessarie per poter sviluppare adeguatamente queste attività. E le molte migliaia di uomini necessari allo sviluppo economico furono forniti appunto dall’immigrazione.
In Argentina la maggior parte dell’immigrazione si concentrò nei principali centri urbani, e le attività predominanti riguardavano il settore terziario e soprattutto i piccoli laboratori artigianali. Gli italiani ebbero un ruolo esclusivo nella costruzione di grandi opere pubbliche e di innumerevoli immobili privati, dalle modeste abitazioni sino ai grandi palazzi.
Statistiche dell’emigrazione italiana
Emigranti italiani che hanno abbandonato la sua patria nel periodo 1861-1985
TOTALE NEL MONDO:
Emigrati: 29.036.000 Ritornati: 10.275.000 Emigrati non ritornati: 18.761.000
TOTALE ARGENTINA:
Emigrati: 2.941.000 Ritornati: 750.000 Emigrati non ritornati: 2.191.000
Emigrazione italiana per regione 1876-1915
Popolazione italiana in Argentina (dati dai censimenti argentini)
Emigranti italiani verso l´Argentina per grandi regioni d´Italia (1880-1929)
Le comunità italiane all’estero oggi
Oggi il numero di italiani che lasciano il proprio paese per cercare migliori opportunità di lavoro all’estero si è fortemente ridotto, ma non è completamente esaurito. Si ha un flusso di circa cinquantamila persone che espatriano e altrettante che rimpatriano. Ciò che è mutato è la qualifica professionale degli emigranti: è aumentato il numero di tecnici e operai specializzati che si recano in cantieri o in imprese ad alta tecnologia italiana nei paesi del terzo mondo.Gli italiani all’estero secondo le stime del Ministero degli affari esteri erano nel 1986 quasi 5.116.000, di cui il 43% nelle Americhe e un´altro 43% in Europa. L’entità delle collettività di origine italiana ammonta invece a decine di milioni, comprendendo i discendenti degli immigrati nei vari paesi. Al primo posto troviamo l’Argentina con 15 milioni di persone, gli Stati Uniti con 12 milioni, il Brasile con 8 milioni, il Canada con un milione e l’Australia con 540.000 persone.Nonostante sia trascorso più di un secolo dagli esordi della diaspora italiana nel mondo numerosi elementi stanno ad indicare il perdurare di un senso di appartenenza etnico dei discendenti degli italiani nei confronti del loro paese d’origine. Alberto Sarra(Buenos Aires, Argentina)Ottobre 2007Compilato da libri e documenti storici.
§ Aurelio Lepre – da “Storia Illustrata” n.370, 1988
§ Associazione Internet degli Emigrati Italiani – (www.emigrati.it)
§ Francesco Saverio Alessio – (www.emigrati.it)
§ Colectividad Italiana – www.oni.escuelas.edu.ar
§ Sicilia in Europa – www.siciliaineuropa.eu/storia_emigrazione
16 Risposte per "Emigrazione italiana in Argentina"
Complimenti per l’articolo, che ho letto con molto interesse, perchè in esso ho ritrovato molte emozioni che hanno fatto la storia della mia famiglia. Storia che io conosciuto attraverso i racconti di mia madre che mi parlava dei nostri parenti che erano migrati all’estero dal 1910 al 1938 e che ho vissuto in prima persona quando subito dopo la seconda guerra mondiale (nel 1950) la mia famiglia si trovò a valutare l’ipotesi di emigrare in Argentina. Ricordo i sogni le speranze legate ai motivi che ci facevano propendere per il si, ma anche le paure, le difficoltà che ci facevano propendere per il no. La scelta non fu facile, alla fine prevalse la decisione di non partire, ma da quel momento ho avuto molto rispetto e ammirazione per coloro che affrontando anche grandi sacrifici sono “partiti”. La storie della emigrazione degli Italiani è molto importante in questo momento per l’Italia che si trova ad affrontare flussi di immigrazione che non aveva mai conosciuto.
Salve,
sono Gerardo RINALDI, cittadino italo-uruguayano nato in Salto( URUGUAY) i miei nonni e bisnonni della Liguria( Vetria _ CALIZZANO) ho 34 anni d’ettà. Abbito in Spagna da 8 anni fa, ma sempre sono stato molto ineresato più di quel’altri che ovunque sono come quasi tutti nipote d’italiani di sapere di più delle mie radici.
Allora vorrei salutarvi e vi invio i complimenti por la vostra pagina Web che senz’altro è molto buona, ha proprio una chiarezza molto particolare del fatto dell’immigrazione italiana per la sognata AMERICA…..Mi spiace se non siete riusciti a capire bene la mia lettera…..ma non so molto.
Allora, da già aspetto che la vostra WEB ci sia al di là una buona raggione per tutti coloro che vogliono restare più vicini alle sue radici la una maniera di conoscere meglio la storia.
Comunque adesso vi lascio non senza salutarvi e ringraziarvi per la vostra gentilezza e coraggio, vi faccio l’invito a guardare la WEB dei Centulegni RINALDO di Vetria Calizzano.
https://www.centulegnirinaldi.blogspot.com
a presto carissimi amici!!
Gerardo RINALDI
Maiorica
Isole Baleari
SPAGNA
hola, estoy buscando datos de mi bisabuelo, FRANCISCO ANANIA, que nacio en 1871, y vino a la argentina en 1892. casado con ROSA MANCUSO. ambos son de Savelli. Tuvieron un hijo italiano llamado LEONARDO ANANIA.
Hola soy nieto de Jacobo Capraro y tatara nieto de Primo Capraro solo quiero cumplir con el sueño de mi abuelo simplemente quienes somos y cuantos somos no quiero ninguna ayuda economica yo puedo con mi trabajo llegaron al pais en el año 1902 desde san martino provincia de caltanisella sicilia solo les pido que no me dejen morir sin antes llevar noticias a la tumba de mi abuelo…simplemente esa es mi mision gracias.-
ciao sono gina
ho 13 anni e sono argentina
e mi sto preparando per fare l’esame di terza media..
mi è sembrato molto bello e interessante quello che ce scritto..
i miei bis nonni sn italiani… e ora io sto vivendo in italia.. con la mia famiglia..
e raccontero tutta la storia dei miei nonni che sono immigrati da italia a argentina…
non ho nien’altro da dire solo che è interessante…
gina..
podrian darme informacion si en Italia el apellido Cancelare existe o es una deformacion de otro
[...] la maggior parte degli immigrati italiani in Argentina tra fine ‘800 e inizio ‘900 proveniva dall’Italia settentrionale. Se invece (come dubito), l’affermazione di Bossi avesse voluto riferirsi agli italiani in [...]
il fratello di mio nonno e emigrato a Buens Aires circa nel 1890 il suo nome era Pietro Cozzi e ha sposato una di cognome Somaruga.dicono che abbia vissuto a Villa Mercedes e abbia avuto cinque figli.faceva il muratore.Non si hanno piu notizie dalla fine della seconda guerra.esiste qualche registro sul quale si puo ricostruire la sua partenza da Busto Arsizio e la sua permanenza in argentina o discendenti che mi possano dare qualche informazione.grazie.
Mi chiamo Antonio Tritta abito a Trani(BAT),mi complimento con voi per il bellissimo e storico articolo che ora ho finito di leggere.Un mio bisnonno in compagnia del figlio Antonio(mio nonno) di 17 anni,
arrivò in Argentina il 3/Sett./1884.Non so quanto tempo rimasero in Argentina,penso dopo sei,sette anni ritornarono a Trani.Mi raccontava mio nonno,io avevo allora nel 1949 12 anni,che il lavoro che lui e suo padre svolgevano,era controllare i galeotti condannati ai lavori forzati.i due erano molto abili nell’uso delle armi,
si potevano definire sportivi del tiro a segno.Avevano vinto molti premi e non ammazzarono mai nessuna persona.Desidererei sapere se voi siete al corrente di qualche pubblicazione in cui si parla di questo genere di lavoro,tRA L’ALTRO RETRIBUITO MOLTO BENE,che alcuni italiani svolgevano in Argentina.
Vi ringrazio e distintamente vi saluto.
Antonio Tritta
Ricordi di un emigrato
dei nostri tempi
Introduzione
Dott.ssa. Maria Cristina Ruffini in Lasagna
Consigliere dell’Emigrazione della Regione Marche
Portavoce del Forum delle Donne Marchigiane in Argentina
I brevi racconti che formano questo libro sono una sorta di pretesto di un emigrato
italiano in Sud America, l’occasione per pensar-si o, per meglio dire, scriver-
si, in vecchiaia.
L’autore forse per molti è uno sconosciuto che vive, ignorato dai suoi connazionali,
nel cuore della pampa argentina. In realtà si tratta di un Nome della Storia
dell’Agricoltura: è stato lui, infatti, che ha portato alla rottura con le pratiche
agricole del XX secolo, introducendo in Argentina in metodo della “semina
diretta”, cosa che ha portato ad una rivoluzione nel mondo dell’agricoltura.
Di fronte alla difficoltà che solitamente hanno molti emigrati di parlare del proprio
passato per il dolore che questo causa loro, il dott. Marcello Fagioli ha il
coraggio di mostrare forme di avvicinamento alla sua stessa vita, riflettendo – nel
contempo – attorno a se stesso, vale a dire attorno a noi stessi che condividiamo
con lui la sua umanità e il fatto che, in qualche modo, siamo tutti migranti.
Cosa pensa un uomo di scienza della sua vita, vissuta per la maggior parte degli
anni lontano dalla sua terra natale? Ricorre ai principi e alle leggi della fisica e
della chimica per esprimersi? Che accade quando desidera spiegare ciò che era,
ciò che è e ciò che sarà? Nella catena della sua memoria, come si allacciano gli
eventi significativi della sua vita e come sono questi vincolati con tutto il processo
migratorio che lo ha portato ad allontanarsi dalla sua terra?
Questo lavoro non è, e non vuole essere, una ricerca scientifica; si tratta piuttosto
di un esercizio etico ed estetico: partendo da ciò che è, l’autore lascia volare i suoi
ricordi, intenerendosi di fronte al ciò che le sue stesse parole fanno nascere in lui.
Vi invito quindi a condividere la bellezza e la tragedia di questi ritagli di vita,
attraverso i quali una persona decide di svelare se stesso di fronte all’altro.
Fagioli è riuscito a vincere la resistenza a raccontarsi che caratterizza molti
migranti e, attraverso i suoi racconti, ci rivela la sua anima, le sue allegrie, le sue
sofferenze, le sue paure, le sue speranze.
Questo lavoro recupera una pratica che il mondo di oggi ha perduto, quella del
narratore che decide di abbandonare il silenzio per condividere e farci vibrare.
L’autore ha sentito nel suo mondo interiore esplodere la necessità di farsi ascoltare
e, in questo esercizio retrospettivo fa sì che ai suoi ricordi si mescolino elementi
cotruiti nello spazio simbolico e sociale della sua patria. È per questo
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motivo che ha scelto la sua terra e le Marche per pubblicare il suo libro in cui
sono presenti fenomeni sociali che hanno segnato la vita italiana.
La realtà sudamericana è stata uno spazio di differenza e di esclusione per quest’uomo
che, in silenzio, si è dedicato al lavoro; ora, terminato il suo duro compito
di ricercatore, torna con lo sguardo al passato e scrive racconti delicati, profondi,
sinceri e a volte sorprendenti, come del resto lui stesso è sorprendente.
Quale discendente di marchigiani mi sento in debito verso questo emigrato
marchigiano e mi meraviglio nel profondo ascoltando, questo Altro, sempre
diverso e straniero nel mio paese, che ha pronunciato il suo discorso così lontano
dalla sua patria. Tutto questo richiede il nostro silenzio, non solo esteriore,
ma soprattutto interiore ove nasce il sentimento di accoglienza, rispetto e
reciprocità, per ascoltarlo attentamente in tutta la sua singolare dignità.
Qualcuno, non so chi né quando, ha detto:
“Ogni essere umano è una lezione per un altro,
Un testo aperto alla possibilità
Di inventare nuove realtà”
Così è Marcello Fagioli, mio suocero, il ricercatore scientifico che, vivendo
lontano dal suo paese, ha dato un enorme contributo all’umanità e che ora ha
deciso di regalarci l’occasione di ascoltarlo e, contemporaneamente, di ascolre
noi stessi e gli altri.
L’impronta di questo scrittore resta nei suoi racconti, come quella del ceramista
resta nei suoi vasi di terracotta. Tuttavia, contemporaneamente, gli offre la
possibilità di “cominciare di nuovo” da questo posto, così lontano dal suo paese
d’origine. Attraverso l’azione del raccontare ha infatti la possibilità, da un
lato, di tornare ad essere e, dall’altro, di essere domani.
Questa capacità attiva, questo impulso originale in un anziano, gli permette di
guardare indietro e contemporaneamente si ripromette di ri-iniziare. Tutto
questo merita tutta la mia riconoscenza e la mia ammirazione.
Per finire, voglio citare Eduardo Galeano che, come sempre, esprime il mio
stesso sentire quando scrive:
“Non conosco piacere maggiore dell’allegria di riconoscermi negli altri.
Forse questa è, per me, l’unica immortalità degna di rispetto.
Riconoscermi nella mia patria e nel mio tempo, e anche riconoscermi
nelle donne e negli uomini, nati in altre terre,
e che sono miei contemporanei nati in altri tempi.
Le mappe dell’anima non hanno frontiere”
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EMIGRANTI
Mi imbarcai a Genova, nel 1963. Destinazione Argentina.
Mi aspettava un lungo viaggio in mare. Solo. I miei erano partiti prima.
Un transatlantico è una metropoli. Tante persone e tanto diverse.
C’era un cameriere italiano che si mostrava sempre gentile. Più del dovuto. Era
evidente che voleva essere considerato alla pari.
Ma io, poco più di un ragazzo, con una laurea e tante speranze, non ero molto
disponibile.
Poi c’era un giovane, evidentemente di una classe sociale alta, che portava con
sé un paio di sci.
- Sci d’estate! Per sciare dove? -
Forse era un professionista e seguiva la neve dove si trovava, nei vari continenti.
Lui viaggiava in prima classe. Non lo conobbi mai personalmente.
C‘era un medico che aveva trascorso una vacanza in Europa, in compagnia di
un amico commerciante. Era peronista, ma il suo amico no. E si criticavano a
vicenda in ogni occasione, per le loro idee politiche.
Il medico era il maestro. Il commerciante l’allievo. Ma non credo che quest’ultimo
imparasse molto.
Una volta infatti, chiese al medico: “cos’è la vita?”
E la risposta fu: “è movimento”
“Ma anche la nave si muove” disse il commerciante… e si interruppe per non
creare una situazione sgradevole. Poi raccontò che viveva a Mar del Plata, una
città di 500.000 abitanti, che si triplicavano nella stagione estiva.
La “città più bella del mondo”, diceva sempre.
Il medico era un mezzo filosofo. Faceva discorsi e domande strane.
Diceva che i tedeschi avevano avuto grandi filosofi. Kant era uno di questi.
Non per il suo sistema filosofico, ma solo per una affermazione: il nostro cervello
funziona secondo una categoria: la categoria causa-effetto.
Questo è il nostro modo d’intendere. Questo è il motore dei nostri ragionamenti.
Nel motore delle auto i pistoni, con il loro moto di va e vieni, mettono in movimento
l’automobile. L’equivalente dei pistoni, in noi, è la categoria causa-effetto.
Noi vediamo tutto quanto accade nell’universo secondo questa categoria.
Se mettessimo ad un piccione, appena uscito dall’uovo, un paio d’occhiali verdi,
il piccione crescerebbe e, diventato adulto, volando intorno al mondo, lo vedrebbe
tutto verde e direbbe che il nostro mondo è verde. Quella sarebbe la sua verità.
Chiaro, per scoprire questa verità, bisogna leggere molti libri con frasi alla
tedesca, tanto lunghe che, quando si è alla metà di un paragrafo, si dimentica il
soggetto. Ma, diceva lui, vale la pena.
Poi c’erano due vecchietti. Lui alto e magro. Lei piccolina. Ambedue con i
capelli splendidamente candidi. Tornavano in Argentina perché lui era un falegname
pensionato. Da vecchi, erano ritornati al loro paese e vivevano tranquilli.
Ma negli ultimi anni il cambio della moneta era diminuito molto ed ora, con
11.000 lire al mese, era impossibile vivere in Italia.
Tornavano in Argentina per vedere come si poteva vivere là. Alla fin fine non
rimanevano loro molti anni.
Fin dall’inizio del viaggio, avevo visto un uomo e una donna che si sedevano
sempre in posti isolati e seminascosti. Avevano un termos ed uno strano recipiente
simile ad una tazza da caffellatte. Versavano in continuazione il contenuto
del termos nella tazza e lo sorbivano. E sempre così, per ore. Pensai
subito che fossero drogati.
Mi meravigliava il fatto che lo facessero in presenza d’estranei.
Anni dopo un amico mi spiegò che in Uruguay bevono il “mate” così, in continuazione.
Il “mate” è una infusione di foglie in acqua calda. Una eredità degli
indios Guaraní, credo.
Mi disse anche che, in una sfilata militare, in occasione di chi sa quale ricorrenza,
aveva visto un soldato a cavallo, sorbire il mate. Strane abitudini!
Sul transatlantico non mancava un gruppo di persone che giocava accanitamente
al “truco”, un gioco di carte che non ho mai appreso. Uno di loro si
vantava di vivere, a Buenos Aires, con gli interessi di un suo piccolo capitale
che prestava ad amici e conoscenti. Io credevo che questo si chiamasse usura e
che non fosse una cosa di cui vantarsi.
Una signora di mezza età, tornava in Argentina per vendere il suo albergo e
tornare in Italia a comprare una piccola pensione. Nella decade del ’60 l’economia
italiana andava molto bene.
Un italiano, uno dei tanti turisti di ritorno, diceva di possedere una “estancia”
nella provincia di Santa Fe, vicino al fiume Paraná. Nella regione si diceva che
Garibaldi, in fuga sul fiume, fosse affondato proprio in quella zona e che, nel
profondo del fiume, c’era ancora la sua nave. Lui voleva trovarla. Aveva provato
già varie volte, ma inutilmente.
Ora, al suo ritorno, avrebbe tentato ancora e, sperava, con successo. Diamine,
suo nonno era italiano e lui avrebbe fatto vedere ai “criollos” di che pasta son
fatti gli italiani.
Tanta gente, tante speranze!
Ora, naturalmente, dopo più di 40 anni, il cameriere sarà morto. Il giovane
sciatore sarà probabilmente molto vecchio; chissà quante gare avrà vinto!
Il medico filosofo ed il commerciante saranno morti, portando con loro dubbi,
domande e l’angoscia del pensiero della morte.
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I due uruguaiani, lui e lei, riposeranno senza più sentire la necessità di bere “mate”.
Il falegname, anziano pensionato e la sua compagna, ambedue con capelli così
candidi, riposeranno finalmente senza la preoccupazione della svalutazione
della moneta.
E così pure l’innamorato di Garibaldi e l’usuraio che si vantava d’esserlo e tutti
gli altri.
“Speranze… speranze, ameni inganni”
Non ricordo chi ha scritto questo verso, ma è troppo bello per essere mio.
LA “PAPERA” D’UN EMIGRATO CHE FECE RIDERE
TUTTA UNA UDIENZA, ALLA FINE D’UNA
CONFERENZA SERIA E MOLTO TECNICA
Come è noto, in italiano, con la parola “responso” si indica la risposta d’un
oracolo. Ben diverso è il suo significato nella lingua spagnola. Lo vedremo poi
e vedremo come una “papera” d’un recente emigrato, che aveva bisogno d’un
dizionario per non dire spropositi, fu motivo di risa alla fine di una conferenza
molto tecnica e seria.
Ero appena arrivato alla “Stazione Sperimentale Agricola” per iniziare il mio
nuovo lavoro.
Era consuetudine in quei tempi, all’inizio del 1960, riunire tutto il personale
tecnico in un grande salone, con un enorme tavolo ovale, il sabato pomeriggio,
per parlare dei problemi del giorno o ascoltare un invitato o un nuovo venuto,
come nel mio caso.
Ed io parlai e parlai con sicurezza, trattandosi d’un argomento che conoscevo
molto bene. Di fatto i problemi della fertilizzazione delle colture sono ben
conosciuti in Italia. Ma ciò che è valido per un paese può non esserlo per un
altro. Altre terre, altri climi ed altri cultivar.
Si trattava di fertilizzanti. C’era un progetto di fertilizzazione del mais già iniziato.
Alla fine dell’esposizione, parlai di ciò che avremmo fatto nei campi sperimentali
della regione.
Il risultato delle esperienze era difficilmente prevedibile e conclusi il discorso
dicendo: – vedremo quale sarà il “responso” della sperimentazione. -
Tutta l’udienza scoppiò in una risata sonora e prolungata. Io non mi rendevo
conto del motivo, dato che ero stato ascoltato con grande attenzione per tutto
il tempo. Chiesi spiegazioni al mio vicino, ma questi continuava a ridere senza
freno e non mi rispondeva.
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Solo poco dopo, in un vocabolario, fui in grado di leggere che per “responso”,
nella lingua spagnola, s’intendono “versetti e preci” che si recitano in presenza
dei defunti.
Al momento della”papera” furono varie le persone che mi chiesero cosa avevo
voluto dire con ”responso” ed io non ebbi altra alternativa che fare un
sorriso idiota.
RICORDI DI GUERRA
Eravamo in guerra. La seconda guerra mondiale, del 1939. Del 1940 per l’ Italia.
Avevo undici anni. Mio padre era medico1 in una cittadina delle Marche e
di quando in quando riceveva un regalo, spesso in cambio del pagamento della
visita: una scatola di tabacco turco, biondo e profumato, una bottiglia di
cognac, una di champagne. Tutte cose introvabili in tempo di guerra per i
comuni mortali e quindi preziose.
In quei tempi si usava bere un bicchierino di cognac dopo pranzo, nei giorni di
festa. Solo alla fine della guerra, con l’arrivo delle truppe americane, l’whisky
sarebbe diventato popolare. Lo champagne si beveva nelle grandi feste: a Natale,
a Pasqua e in occasione dei compleanni.
Io presi in consegna una bottiglia di champagne che ci avevano regalato.
Poco tempo dopo un aereo da caccia nemico mitragliò la ferrovia e tutti cominciammo
ad aver paura. Non passò molto tempo quando una squadra di quadrimotori
sorvolò la città. Erano cinquanta aerei, in formazione triangolare che
volavano molto in alto. Ma la terra tremava sotto i piedi, quando s’avvicinavano.
Lasciarono cadere il loro carico di bombe sulla città.
E fecero un disastro. Fummo presi tutti di sorpresa e impreparati.
Era la prima volta.
Non c’era più nessun dubbio.
Bisognava abbandonare la città e rifugiarci in campagna. E questo facemmo.
Io non avevo dimenticato la bottiglia di champagne.
Era troppo preziosa e quando ci trasferimmo in una villa a 15-20 chilometri di
distanza, la misi tra le cose da portare con noi, bene imballata con giornali, in
una scatola di cartone.
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1. Molti, molti anni dopo, quando la guerra era già diventata un ricordo, posero il suo
nome ad una strada della città, in ricordo dell’umanità con cui aveva esercitato la sua
professione in quegli anni feroci.
11
Quando chiedevo a mio padre di aprire la bottiglia, lui diceva sempre d’aspettare
la fine di quel brutto periodo.
L’avremmo aperta in un’altra occasione.
Ma la guerra, i bombardamenti e la fame ci accompagnarono per lungo tempo.
Sognavamo la pace, la casa in città, una vita normale. La normalità era un sogno
che sembrava irraggiungibile. Ma io continuavo a conservare lo champagne.
Forse avremmo potuto berlo alla fine del conflitto.
E dal sud si avvicinò il fronte di guerra. Quando fu abbastanza vicino, mio
padre decise di portarci con lui, nell’ospedale dove lavorava. Lì c’era la croce
rossa dipinta sul tetto.
Il passaggio del fronte era troppo pericoloso ed imprevedibile e lui disponeva
di una stanza grande, sufficientemente grande per tutti noi. Lì avremmo potuto
aspettare la fine dei giorni più pericolosi.
La decisione della fuga era stata presa in fretta e furia. Non portavamo quasi
nulla con noi. Gli ultimi a partire fummo io e mio padre.
Io avevo aperto la scatola di cartone e tenevo nel pugno, per il collo, la bottiglia
di champagne. Mio padre si impazientì perché stavo perdendo tempo per
quella sciocchezza.
Ce ne andammo camminando in fretta. Si camminava lentamente, con precauzione,
solo quando un rilievo o una piccola collina nascondeva l’orizzonte. A
nord e a sud della zona dove eravamo erano schierati i due fronti, non molto
lontano.
Non c’era movimento. Non si vedeva nessuno. Si udivano solo i sibili dei
proiettili dei cannoni che passavano sulle nostre teste ed andavano a scoppiare
più lontano. Noi avevamo scelto un percorso in linea retta tra la villa e l’ospedale,
in mezzo ai campi. Erano forse dieci chilometri da fare a piedi, senza neppure
uno stradello. Ma questo non importava molto. Avevamo paura.
Ma c’era un fiumicello che ci sbarrava la strada. Non era grande, ma profondo.
O forse io non ero molto alto a quell’età. E l’acqua era fredda. L’attraversai
tenendo la bottiglia sopra la testa. Mio padre mi disse qualcosa circa la mia
testardaggine e a proposito di quella bottiglia.
Ma la fortuna era con noi. Arrivammo all’ospedale e ci rifugiammo nell’abitazione
riservata a noi. Io ero zuppo, per aver attraversato il fiume. Posai la bottiglia
sopra un tavolinetto basso e mi allontanai un po’ per asciugarmi e coprirmi
come potevo.
Poi si udì uno scoppio e, quando mi voltai a guardare, vidi i pezzi di vetro della
bottiglia ed il liquido giallo dello champagne ancora spumeggiante sul pavimento.
Uno dei miei fratelli, il più piccolo, correndo nella stanza, aveva urtato
il tavolino che sosteneva la preziosa bottiglia.
I TEUTONI E “L’UOMO CHE RIDE”
Era completamente idiota. Avrà avuto vent’anni e rideva. Rideva sempre e correva.
Ma era un bravo ragazzo, dicevano. Faceva tutto quello che gli si diceva,
la madre assicurava, e l’aiutava molto in famiglia.
Noi eravamo studenti di ginnasio ed andavamo ai giardini pubblici, a Fabriano,
nelle belle giornate. Eravamo all’inizio della guerra e quella sarebbe stata
l’ultima “bella estate” di vacanze.
L’idiota qualche volta si univa a noi. Quasi non parlava e quando parlava si
capiva molto poco. Rideva, poi si metteva a correre. Io non sapevo neppure
come si chiamasse. In una occasione, per merito anche suo, appresi alcuni
sinonimi.
- Perché lo lasceranno libero? Dovrebbero occuparsene – disse uno del nostro
gruppo.
- Ma è buono. Fa parte del paesaggio e poi è come noi, nativo, indigeno, autoctono
- rispose quello che era il più bravo a scuola, facendo sfoggio della sua
conoscenza del vocabolario dei sinonimi del Tommaseo, che avevamo conosciuto
da poco, a scuola.
Al centro dei giardini pubblici c’era una grande fontana rotonda, con uno zampillo
molto alto, con pesci rossi e l’idiota, dopo una bella corsa, tutto sudato,
la raggiungeva e sommergeva la testa nell’acqua. Poi la scrollava come fanno
i cani quando sono bagnati.
E rideva e viveva contento.
Noi non gli facevamo molto caso. Contagiava allegria anche a coloro che gli
erano vicini col suo riso spensierato e irresponsabile.
Poi cominciò il periodo peggiore della guerra. La guerra mondiale del ’40. Bombardarono
la città, che rimase deserta. Tutti si rifugiarono in campagna.
Con la mia famiglia trascorsi molto tempo in una villa isolata, sopra una collina.
Un giorno venne a visitarci un compagno di scuola di mio fratello, che viveva
in un paesotto vicino. Si parlò di molte cose e, a un certo momento, lui disse: -
anche quel poveraccio di Carlo è morto -.
- Quale Carlo?
- Carlo, l’idiota, “l’uomo che ride”.
I tedeschi, che si stavano ritirando, l’avevano catturato. Lo accusarono d’essere
una spia dei partigiani. Ma lui rideva, rideva sempre. Non si difese e lo fucilarono.
Il suo ricordo si perse nel nulla. Nessuno ne parlò mai più. Furono tanti i morti
che seguirono!
Da “Valigie di cartone” – Centro Marchigiano di Pergamino (Argentina).
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PRIME ESPERIENZE NEL NUOVO MONDO
Arrivato in Argentina da pochi mesi, venne il momento di fare il raccolto nei
campi sperimentali stabiliti nella zona.
Con una camionetta e una “jeep Willy” (un residuato di guerra rimesso a nuovo)
e sei uomini (che sapevano ancora come raccogliere il mais a mano) stavamo
realizzando il nostro lavoro quando fummo fermati, sull’autostrada, da un
gruppo di uomini scesi da un camion.
Come ho detto, io ero arrivato da poco in Argentina. Capivo abbastanza quando
la gente del luogo mi parlava e mi facevo intendere dai miei uomini, ma non
avevo ancora il coraggio di parlare ad estranei nella nuova lingua, che conoscevo
appena.
Sapevo che l’accento, la maniera di costruire le frasi e gli spropositi detti mi
facevano riconoscere subito come straniero.
Il gruppo di individui che era sceso dal camion si mostrava arrabbiato ed
aggressivo.
Io non afferravo bene la situazione. Gridavano che c’era un “paro”. Che non era
possibile che gente come noi rompesse “el paro” e facesse la raccolta del mais.
Non conoscevo il significato della parola “paro”.
Lo chiesi ad uno dei miei uomini, che mi spiegò che c’era uno sciopero degli
operai agricoli.
La mia gente taceva, senza reagire all’aggressività degli sconosciuti.
Preoccupato, cominciai a parlare io, cercando di spiegare che non eravamo
”crumiri”, ma solo personale della Stazione Sperimentale che non voleva perdere
i risultati degli esperimenti ed il lavoro di un intero anno che, alla fin fine,
noi facevamo in beneficio di tutti.
Non facevamo la raccolta del mais per nessun proprietario.
Naturalmente parlavo in italiano, senza neppure rendermene conto.
Ed allora successe una cosa strana. Quegli uomini deposero la loro aggressività.
Io, un giovane che parlava in modo più o meno comprensibile, la sigla dell’istituzione
per la quale lavoravamo, scritta ben grande sulle auto e che evidentemente
essi conoscevano, parvero loro una valida ragione per accettare i
nostri motivi.
Non dissero più nulla. Risalirono sul loro camion e solo quello che guidava,
affacciandosi al finestrino, disse in modo educato: “no lo hagan más” e
se ne andarono.
La mia gente mi spiegò poi che non era molto prudente fare cose del genere e
cioè interferire con uno sciopero.
Io avevo la coscienza tranquilla.
13
- Voi non mi avete avvertito ed io non sapevo – mi giustificai.
Erano brava gente. Con gli anni, più di una volta si dimostrarono amici.
***
Un giorno percorrevamo un’autostrada con la camionetta di servizio. Il mio
aiutante guidava, io leggevo un foglio di istruzioni per un lavoro che dovevamo
fare.
Ad un certo momento un uomo, al bordo della strada, ci fece cenno di fermare
e chiese un passaggio sino al seguente villaggio.
L’autista disse subito di sì e lo fece salire nella cabina.
Io non ero molto contento.
Venivo da un paese dove esisteva una legge che faceva responsabile il proprietario
dell’auto di qualsiasi possibile incidente.
Più di un tribunale, in Italia, aveva emesso condanne in casi di incidenti e sapevo
che solo noi, il personale dell’istituzione, eravamo coperti dall’assicurazione.
Ma in quegli anni le cose erano diverse in Argentina.
Per lo meno nell’interno, c’era molta onestà e rispetto anche per gli sconosciuti.
Solo negli ultimi tempi le cose son cambiate e molto.
Lo sconosciuto cominciò immediatamente a parlare con l’autista. Io tacevo.
Ad un certo momento ascoltai una parola che non conoscevo: “sartén” ossia
“padella”.
Vinto dalla curiosità chiesi al mio aiutante cosa significava.
Lo sconosciuto, ascoltata la mia domanda, si sorprese e scandalizzato, disse:
- Ma come, un giovane come te non conosce una padella? Bisogna studiare.
Non c’è più posto per gli ignoranti in questo mondo! -
Ma l’autista intervenne.
- Il dottore è italiano – disse.
Lo sconosciuto ammutolì.
Io tacevo e lui non aprì più bocca sino all’arrivo. La scena si fece pesante. Sembrava
d’ascoltare il silenzio che regnava nella cabina dell’auto.
Arrivati all’entrata del suo paesotto, l’auto si fermò e il passeggero scese, senza
dir parola.
Io ebbi un po’ di vergogna. L’autista sorrideva.
***
Lavoravo da poco tempo nella Stazione Sperimentale e un giorno il segretario
della sezione mi avvertì che dovevo presentarmi immediatamente in direzione.
14
Presi la camionetta di servizio ed andai.
Una segretaria mi disse che mi aspettavano nel salone delle riunioni e che
dovevo partecipare ad una trattativa con alcuni dirigenti di una grande società,
con i quali la Stazione Sperimentale stava progettando una collaborazione.
Quando entrai mi resi subito conto che c’era una atmosfera tesa tra i presenti.
E la cosa non era piacevole, particolarmente per me che avevo ancora problemi
con la lingua.
Il direttore ed i dirigenti della società non riuscivano a mettersi d’accordo.
Erano tutti seduti nel mezzo del salone delle riunioni, dove c’era un grande
tavolo ovale, con un vetro spesso e oscuro sulla superficie.
Io salutai e mi sedetti, deciso a non parlare o parlare con molta prudenza non
essendo al corrente di quanto era stato detto o discusso in precedenza.
Era estate ed indossavo una camicia color verde, nuova.
Ben presto i rappresentanti delle due parti cominciarono ad alzare la voce.
Io diventai nervoso e, poiché dal bottone del polsino della camicia fuoriusciva
un filo bianco, lo afferrai e tirai più forte del necessario.
Non l’avessi mai fatto!
Il filo venne via ed il bottone, libero, saltò sul vetro, nel mezzo del magnifico
tavolo, con un rumore che a me parve assordante e continuò a sobbalzare con
un ticchettio che non avrei mai immaginato possibile.
Tutti i partecipanti alla riunione interruppero i loro discorsi, seguendo con gli
occhi il percorso del bottone, che non si fermava mai.
A me sembrò che il sangue mi si congelasse nelle vene e trattenni il respiro, preso
da un’ansia irragionevole. Ma, guardando il direttore, vidi che la sua faccia,
da molto seria, si faceva distesa. Un rappresentante della società ospite, sorrise
lievemente. Il suo vicino cominciò a ridere e trascinò in una sonora risata tutti
i presenti.
Il gelo della riunione si era rotto e tutti cominciarono a discorrere cordialmente.
Nessuno disse una parola sul bottone. Mi guardavano sorridendo e parlavano
tutti insieme e interrompendosi l’un l’altro.
La riunione finì poco dopo. Le due parti si posero d’accordo rapidamente e,
quando i visitanti si apprestavano ad andar via, si avvicinarono per salutarmi
con grande effusione.
Io raccolsi il bottone, pietra dello scandalo, e lo posi nel taschino della camicia
per farlo ricucire in casa.
Ma non troppo forte… perché aveva dimostrato d’essere capace di salvare
situazioni molto compromesse.
***
15
Il primo giorno di lavoro ero seduto alla mia scrivania, leggendo alcune relazioni
per mettermi al corrente della situazione. I due ingegneri agronomi (in
Argentina si chiamano così i laureati in agronomia) che mi avevano preceduto,
mi avevano lasciato solo. Uno era stato trasferito ed il secondo era partito per
il Nord America con una borsa di studio.
Io ero lì per sostituirli.
Il direttore, un uomo corpulento e quasi sempre sorridente, entrò nell’ufficio
e si sedette davanti a me.
Dopo lo scambio di alcune frasi di cortesia, mi disse:
- Tu e la tua famiglia siete arrivati da pochi giorni. Immagino che avrete un sacco
di cose da fare, per sistemarvi. Avrete preoccupazioni come sempre accade
in simili frangenti. Sono venuto a dirti che io pretendo che il personale della
sperimentale si dedichi e pensi al proprio lavoro. Pertanto se hai problemi
urgenti da sbrigare, qualsiasi cosa… dimmelo. Provvederò io, se possibile. Pensa
al lavoro e lascia che io mi guadagni il mio stipendio come direttore. -
Io rimasi senza parole. Mai avrei immaginato una simile accoglienza. Mai sentito
dire una cosa così, in Italia.
La decade del ’60 era un periodo molto buono per la ricerca, in Argentina ed il
comportamento del direttore lo lasciava intravedere.
E negli anni seguenti io, che venivo da un altro paese, fui in grado di fare un
buon lavoro.
Venivo da un altro continente. Vedevo i problemi in modo diverso e vedevo
cose che il personale del luogo non vedeva, semplicemente perché quelle cose
erano state sempre così.
Purtroppo negli anni seguenti tutto cambiò. L’economia non migliorò. Ci
furono vari “golpes” da parte dei militari, che non aiutarono.
Ma quanto era successo all’inizio mi diede l’idea di come fosse apprezzato il
lavoro di ricerca nel paese.
L’Argentina rimane sempre un grande paese agricolo, con un Istituto per la
Ricerca Agricola meraviglioso. Ma la ricerca richiede tempo e denaro, non
sempre disponibili a sufficienza.
IO… ANTIFASCISTA?
A Fabriano, nelle Marche, faceva freddo d’inverno.
Ogni due o tre anni veniva il “nevone” e tutta la città rimaneva coperta da 40-
50 centimetri di neve.
Non so come sarà ora , con il “riscaldamento globale”.
16
Ed era una festa per noi adolescenti ed ancor più per me che ero proprietario
di un paio di sci e percorrevo a piedi vari chilometri, sino alla cima di una collina
chiamata “Monticelli” per trascorrere tutto un pomeriggio sulla neve.
Erano gli anni del fascismo e quando si scriveva una lettera, si metteva, in alto,
a destra: “Anno XX Era Fascista”. Ed io facevo il ginnasio.
In quegli anni si andava a scuola tutti i giorni della settimana ed anche il sabato,
che era anche lui “fascista”; “sabato fascista”, il che significava che nel pomeriggio
non si faceva lezione, ma bisognava mettersi in divisa per fare esercizi militari
nel cortile del vecchio convento, dove erano le aule del ginnasio e del liceo.
Tutti gli studenti erano, a seconda dell’età, figli della lupa, balilla o avanguardisti.
I figli della lupa erano i più piccoli e non avevano obblighi particolari.
I balilla avevano come divisa, pantaloni corti di color verde e camicia nera. Gli
avanguardisti indossavano pantaloni alla zuava e giacca verde.
Il mio problema era che a un certo punto cominciai ad usare pantaloni alla zuava
anche quando ero vestito da civile e, quando mi fui abituato a stare con le gambe
ben coperte dal freddo dell’inverno, non avevo più molta voglia di mettere i pantaloni
corti per andare a compiere il mio dovere di balilla. Sentivo freddo.
Ed un giorno ebbi una brillante idea.
Visto che mio padre era medico, perché non farmi fare un certificato per giustificare
la mia assenza e non dover andare a prender freddo nel cortile del convento?
Così il lunedì seguente, quando finito l’appello l’insegnante mi disse che dovevo
presentarmi al preside per giustificare la mia assenza al “sabato fascista”, io
andai tranquillo. Presentai il certificato e tutti finì lì.
Ma il problema non era risolto, perché poi vennero gli altri sabati e, data la mia
insistenza, mio padre mi fece altri certificati. E la cosa andò avanti per tre o
quattro settimane.
Ma un lunedì mattina, quando mi presentai al preside, questi mi disse con voce
stentorea che se il seguente sabato non avessi partecipato agli esercizi militari,
in divisa e con tanto di moschetto di dimensioni ridotte, sarei stato espulso da
tutte le scuole del regno.
In quei tempi avevamo ancora un re.
Io non mi impressionai molto e il sabato seguente fui di nuovo assente. Forse
non mi rendevo ben conto di cosa significasse non poter andare più a scuola. Il
lunedì seguente, dopo l’appello, mi fecero uscire dall’aula, ed io ero forse più
contento che dispiaciuto.
Ma la “dea fortuna” esiste.
Nella settimana seguente un aereo da caccia nemico sorvolò la città e mitragliò
la linea ferroviaria. Era la prima volta che avevamo a che fare con il nemico, che
sino allora conoscevamo solo per quello che dicevano i “giornali radio” .
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Molta gente uscì dalla città per vedere l’effetto del mitragliamento. Le traversine
di legno erano scheggiate. Sui binari si vedevano le tracce brillanti che i
proiettili avevano lasciato sull’acciaio. Ma niente più..
Poi, pochi giorni dopo, una squadra di cinquanta quadrimotori, in formazione
triangolare, sorvolò la città e lasciò cadere un micidiale carico di bombe.
Non c’era stato allarme. Era la prima volta che succedeva e la distruzione fu
grande ed i morti molto numerosi.
Pochi giorni dopo tutta la città era deserta. La popolazione era sfollata nelle
poche ville e nelle case dei contadini nella campagna circostante.
Quando, dopo più di un anno, ritornammo in città e ricominciarono le scuole,
nessuno ricordò più la mia “espulsione da tutte le scuole del regno”
L’ESAME
Io, finito il liceo, partivo per frequentare i corsi della facoltà d’agronomia, nell’università
di Pisa.
Avevo con me una valigia con solo le mie cose personali e non avevo la minima
idea dell’ambiente in cui mi sarei trovato a vivere e studiare.
La prima materia che, secondo il programma, dovevo frequentare era matematica.
Poi seguivano fisica, botanica, genetica e tutte le altre.
Il corso di matematica veniva impartito nell’edificio “La Sapienza”, al centro della
città. Una costruzione monumentale, dove c’era un grande salone con un pavimento
di legno, non lucidato e vecchio, che rendeva l’ambiente polveroso. In
fondo al salone, su una pedana, una cattedra che, mi dissero, era stata di Galileo.
Non so se sarà vero. Ma vera era l’atmosfera tipo:”noi siamo gli eredi di Galileo”
che si viveva nell’istituto. Nessuno prestava la minima attenzione agli studentelli.
Gli insegnanti erano inavvicinabili ed anche il resto del personale sembrava
essere ben cosciente di quell’eredità.
Mi fu indicato di entrare in un’aula ad anfiteatro, molto grande.
I banchi erano forse davvero del tempo di Galileo, tanto erano vecchi.
C’erano pochi studenti dispersi che seguivano, silenziosi, un anziano signore
che, in cattedra, scriveva su una lavagna e parlava.
Parlava di sistemi d’equazioni e determinanti e del modo di semplificare questi
ultimi per poterli risolvere.
Non c’erano ancora i calcolatori.
Io non avevo idea di cosa si trattasse.
Avevo frequentato il liceo classico. Avevo appreso che il greco, il latino e l’italiano
erano le materie veramente importanti.
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Ciò che ascoltavo in quell’aula servì solo a darmi un’idea di cos’è il complesso
d’inferiorità.
E fu tutto per quel giorno.
L’indomani andai ad ascoltare una lezione di botanica. Questa volta, pensai,
sarebbe stata un’altra cosa.
Nell’aula entrò un signore anche lui anziano, piuttosto grasso che, in piedi, con
gli occhi semichiusi, cominciò a parlare, con un linguaggio molto ricercato e
nuovo per me, di ontogenesi, filogenesi e così via.
Dico la verità che quando uscii dall’istituto di botanica ero davvero spaventato.
Possibile che con un diploma del liceo classico non fossi in grado di seguire
corsi universitari?
A dire il vero si trattava di matematica e scienze, cose non molto approfondite
nel classico e che io non avevo mai curato molto.
E presi una decisione.
Ritornai a Fabriano col primo treno, raccolsi tutti i libri del liceo che mi sembravano
necessari e ritornai a Pisa.
Questa volta cominciai a studiare le cose basiche di matematica, fisica e scienze
e, solo alla metà del corso, dopo mesi, frequentai assiduamente le lezioni
universitarie.
Fu un anno straordinario e, per la prima volta, appresi cosa significa studiare
veramente.
Venne il giorno dell’esame di matematica.
Questo si svolgeva così: c’era una gran porta chiusa e una lunga fila d’una ventina
o più di ragazzi, tutti con il libretto universitario in mano.
Un bidello seduto a un tavolo, faceva entrare uno studente alla volta, quando
ascoltava un campanello e richiudeva la porta misteriosa.
Non passavano più di dieci minuti o un quarto d’ora e gli studenti uscivano,
frequentemente con la faccia seria, e se ne andavano per una porta laterale.
Quando qualcuno chiedeva come era andata, non rispondevano o facevano un
gesto scoraggiato, molto significativo.
Io ero nella fila tra i primi cinque e più di una volta mi fu chiesto di cambiare
il posto con uno del fondo della fila.
Erano quelli che non resistevano alla tensione che c’era nell’aria e volevano
finire subito, in qualsiasi modo.
Ma anch’io ero diventato fatalista. Se il destino mi aveva assegnato quel turno,
quello avrei conservato.
Quando entrai nella stanza fatale, vidi un grande tavolo con tre uomini seduti.
Quello del centro sembrava essere il presidente della commissione.
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A me disse, molto gentilmente, di sedere. Poi prese un foglio di carta grande,
un foglio di carta di disegno e scrisse qualcosa in alto a sinistra. Me lo porse
insieme ad una matita ben appuntita, senza dir parola.
Aveva scritto un’equazione con esponenti, da derivare.
Sì, però non era tanto semplice. Bisognava trasformare gli esponenti, prima di
poter fare la derivazione. Io avevo studiato una espressione simile il giorno prima,
ripassando la materia e, anche se con mano tremante, feci quanto mi si
chiedeva silenziosamente.
Il professore, presidente della commissione, guardò il risultato ed allora
cominciò a fare domande e qui cominciò il vero esame. Solo allora intesi cosa
era accaduto prima di me, con coloro che uscivano dopo pochi minuti, con la
faccia seria. L’esercizio da svolgere sul foglio di carta da disegno era solo una
maniera di porre fine rapidamente all’esame.
Quando dopo qualche tempo, e a me parve un secolo, uscii, uno di quelli che
stavano nella fila aspettando, mi chiese come era andata.
- Molto bene – dissi. Infatti nel libretto universitario c’era scritto trenta. Il punteggio
massimo.
Allora lui, approfittando del mio stato d’animo, mi chiese se gli prestavo le
dispense sulle quali avevo studiato.
Io, felice, gli dissi di prendersi tutto ed ero tanto frastornato che non gli chiesi
neppure come si chiamava.
Un anno dopo, quando non ero più “matricola”, mentre mi trovavo nell’istituto
di microbiologia, un ragazzo venne a cercarmi dicendomi che era venuto
per restituirmi le dispense di matematica che gli avevo prestato.
Io, ricordando il fatto, gli chiesi come aveva saputo il mio nome.
- Ho solo chiesto dove si trovava lo studente d’agronomia che aveva preso
trenta in matematica – mi rispose.
Ora quelle dispense, che la compagna della mia vita fece rilegare, tanti anni fa,
in due volumi con la copertina rossa, sono ancora nella mia libreria. Sono un
gran bel ricordo.
LA FANCIULLA GALLIANA
Perugia è il capoluogo dell’Umbria. È una città non molto grande, tutta salite
e discese, ubicata su un’alta collina.
Sono frequenti stradicciole molto strette d’epoca medievale, fatte per transitare
a piedi o a cavallo.
È una città cresciuta nei secoli, rispettando molta parte delle antiche costruzioni.
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Ricordo che un giorno dovetti andare, per motivi di lavoro, sino al centro della
città.
Entrai per la porta del sole e parcheggiai l’auto vicino alla piazza grande. A quei
tempi ancora si poteva.
Mi inoltrai nelle stradine del centro e, chiedendo ad alcuni passanti, trovai l’edificio
nel quale dovevo andare.
Sbrigate le mie cose, all’uscita del palazzo, mi sembrò che sarei arrivato prima
al parcheggio dell’auto, camminando più o meno in linea retta.
Così mi inoltrai per vicoli stretti, ombreggiati da alte costruzioni laterali. Dopo
un breve tratto, la stradina si aprì su una piazza non molto grande e deserta.
Vidi immediatamente, sulla sinistra, quello che mi sembrò un sarcofago di pietra
bianca, murato sulla parete di una casa, ad altezza d’uomo.
Mi avvicinai e constatai che effettivamente era un sarcofago, con incisa una
scritta:
“Qui giace la fanciulla Galliana, beneamata dalla popolazione che volle conservarla
con se, nel quartiere, dopo la sua prematura morte”.
Il sarcofago e la scritta mi lasciarono pensando. La stranezza della scoperta e il
significato di quelle parole erano un buon motivo.
Era una bella giornata di primavera e nella piazzetta regnava il silenzio. Quella
scritta e l’aspetto medievale del luogo mi suggerirono la visione di una giovane
ragazza, bella e gentile, benvoluta da tutti e che viveva felice in quel posto
incantevole, stroncata un giorno, da una impietosa malattia. Immaginai lo
sconcerto e il dolore provato dai vicini al vedere qualcosa di giovane e bello
finire così, all’improvviso.
Ero anch’io nel Medioevo e mi sentivo partecipe.
Dopo un po’ ritornai in me ed era mezzogiorno passato.
Mi avviai alla ricerca di un ristorante.
“Più che il dolor poté il digiuno”.
L’INIZIO DELLA GUERRA
Eravamo nel 1940. Tutta la famiglia era seduta su seggiole, disposte a semicerchio,
di fronte alla radio accesa.
Da Roma, doveva parlare il Duce.
Avrebbe dichiarato la guerra alle nazioni “plutocratiche” che si erano schierate
contro la Germania.
I tedeschi avevano già conquistato la Polonia, l’Olanda, il Belgio, la Francia e
la guerra sarebbe finita presto, si diceva.
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Il rappresentante di una casa editrice riuscì a vendere un atlante a mio padre,
con la promessa che avrebbe ricevuto, gratis, i nuovi fogli con impresse tutte le
future modifiche che Germania ed Italia avrebbero fatto ai confini degli stati
europei, non appena terminata la guerra.
Se l’Italia non entrava in guerra ora, Mussolini non avrebbe potuto sedere al
“tavolo della pace”.
Alla radio si ascoltava l’ovazione della folla riunita nella piazza, di fronte a
“Palazzo Venezia” dove, da un balcone, si sarebbe affacciato il Duce.
Tutti, chi più chi meno, erano entusiasti. L’Italia non aveva un esercito molto
armato, ma “quattro milioni di baionette” erano pur qualcosa.
Solo i più anziani, che ricordavano la prima guerra mondiale, avevano dubbi.
Ma neppure loro potevano immaginare quanto diversa e terribile sarebbe stata
questa seconda.
Così iniziò la seconda guerra mondiale.
Quando terminò l’Italia era distrutta.
***
La guerra era già cominciata e, insieme a mia madre, ero andato a Porto Civitanova,
dai miei nonni.
La città è situata sull’Adriatico, con una bella spiaggia di sabbia bianca e ciottoli
molto levigati, che non danno fastidio quando si camminava a piedi nudi.
Io ricordavo la spiaggia com’era d’estate, negli anni precedenti al conflitto,
molto affollata da grandi e bambini che giocavano, con file di capanni di legno
ad una certa distanza dalla riva e piena di ombrelloni, di tutti i colori, nello
spazio tra i capanni ed il mare.
C’era molta musica e molti “mosconi”, una specie di piccoli “catamarani”,
tutti dipinti di bianco, che si potevano affittare per remare al largo, nei giorni
di mare calmo.
Alcuni venditori percorrevano la spiaggia, avanti e indietro, offrendo bibite,
pasticcini e “bombe alla crema”, spesso seguiti da un codazzo di bambini che
non avevano il denaro necessario per comprare quelle leccornie.
Quel giorno io mi avviai alla spiaggia da solo, perché tutti mi consigliavano
di non andare.
Poco tempo prima era stato visto un sottomarino, dicevano, e non si sapeva
se amico o nemico.
Quando arrivai alla spiaggia, la trovai completamente deserta.
Non c’era gente, non c’erano capanni, non c’erano ombrelloni colorati, né
musica.
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È difficile dire quel che provai alla vista di un simile spettacolo, in quel silenzio
assoluto. Più che sorpresa, era spavento, anche se irragionevole. Forse il
pensiero di vedere emergere dall’acqua un altro sottomarino.
Impossibile godersi lo spettacolo, pur bello, di quell’arena bianca con ciottoli
di vari colori, di quel mare calmo, perfettamente liscio e trasparente e brillante
come si vedeva raramente anche d’estate.
Decisi immediatamente di ritornare in città, nella confusione e nel traffico.
Là si poteva stare ancora tranquilli.
AMOR DI PATRIA
La Stazione Sperimentale Agricola nella quale lavoravo, era localizzata nel centro
dell’Argentina, vicino ad una cittadina non molto grande.
Molti italiani e discendenti di italiani vivevano stabilmente nel luogo e naturalmente
erano soci del Circolo.
Il Circolo non era molto frequentato. La collettività si riuniva solo una o due
volte all’anno per festeggiare ricorrenze patrie.
In queste occasioni si parlava molto dell’Italia. La prima domanda che uno si
sentiva fare era: di che regione sei?
E, se la persona era simpatica, iniziava una conversazione fluida, altrimenti ci
si sentiva dire: ma io sono del Nord… o… ma io sono argentino.
Naturalmente il Circolo aveva una commissione direttiva ed un presidente. La
carica di presidente era molto ambita perché dava diritto a questo titolo a chi
titoli non ne aveva.
Ma i soliti malintesi, tanto frequenti nelle comunità italiane, rendevano sempre
necessarie nuove elezioni.
La cosa più desiderata da tutti era poter fare un viaggio in Italia e molti riuscivano
nell’intento.
Alcune volte la comunità riceveva la visita di rappresentanze diplomatiche e,
già molti anni fa, un ambasciatore che era di passaggio si fermò un paio di
giorni nel migliore albergo della città.
Era una persona molto alla mano che preferiva parlare con le persone singole
e non fare discorsi.
Erano ancora tempi nei quali si preferiva non mostrare molto amor di patria.
Alla fine, la sconfitta della seconda guerra mondiale non era poi tanto lontana.
La visita al monumento del Milite Ignoto, a Roma, non era di moda.
Tutti coloro che hanno sofferto la guerra, la sconfitta ed il dopoguerra sanno
bene di cosa sto parlando.
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Tra gli italiani non c’era accordo se si dovesse festeggiare il quattro novembre
e quindi una vittoria o il due giugno e cioè una… sconfitta.
Nel Circolo, normalmente vinceva il partito del quattro novembre, ma una
consulta realizzata presso il consolato ci informò che per loro questo giorno
era un giorno lavorativo.
Solo alcuni anni dopo un presidente della Repubblica Italiana impose il festeggiamento
del giorno della fondazione della Repubblica.
In occasione della visita dell’ambasciatore alcuni gli chiesero lumi sulla opportunità
di scegliere una delle due date.
Ma l’ambasciatore non per nulla era un diplomatico. Fece alcuni cenni alla prima
guerra mondiale ed altrettanti sulla seconda, senza pronunciarsi e terminò
la conversazione dicendo che per quanto riguardava la sua italianità… lui aveva
sposato una signora turca!
Quando fu accompagnato all’albergo, il diplomatico volle saldare il suo conto
ma il portiere, che sapeva chi era, gli disse d’aspettare un minuto e andò a chiamare
il proprietario.
Questi, un vecchio italiano, venne a salutare e, con un tono che non ammetteva
repliche, gli disse che nessun ambasciatore del suo paese avrebbe mai pagato
per la permanenza nel suo stabilimento.
Molte volte ripensai a quelle parole.
Non è questo Amor di Patria?
IO, LA GUERRA E GLI EROI
La guerra è la seconda guerra mondiale, quando ero solo un ragazzo.
Pertanto non sono stato richiamato alle armi, né mandato a un fronte.
Sono scampato a un lungo periodo di bombardamenti ed alla ritirata dei
tedeschi.
Non è stato piacevole, ma ho potuto osservare molte cose.
In quel periodo eravamo sfollati. Si viveva in campagna, abbastanza lontano
dalla città, in una villa su una collina.
Un giorno accompagnavo mio padre, medico, che aveva visitato uno dei suoi
clienti.
A piedi, scendevamo per la strada di terra da una collina, quando sentimmo il
rombo di un motore d’aereo.
Avemmo solo il tempo di girar la testa per vedere un caccia. Credo fosse uno
spitfire, per il tipico disegno delle ali.
In picchiata, veniva diretto verso noi due, alle nostre spalle.
24
Istintivamente saltammo il bordo della strada, io da un lato e lui dall’altro,
rotolando sui lati della collina.
L’aereo ci sorpassò a non molti metri dal suolo, riprendendo quota e rimpicciolendo
in lontananza.
Non avemmo neppure il tempo di provar paura. Probabilmente il pilota aveva
voluto spaventarci. Molti di quei piloti da caccia erano poco più che ragazzi.
Un piccolo scherzo!
***
Un bel giorno, di primo mattino, quando ancora dormivamo tutti, arrivarono
alcuni “sidecar” con soldati tedeschi. Ci cacciarono dal secondo piano a pianterreno
e nelle nostre stanze si installarono loro.
Era un comando austriaco, come sapemmo poi. Fummo fortunati, perché si
diceva che gli austriaci fossero più amichevoli dei tedeschi.
Erano quasi tutti molto giovani.
Era difficile parlare con loro perché conoscevano solo poche parole d’italiano.
Io invidiavo loro il pane di segale, nero, che mangiavano spalmato di margarina,
regolarmente, alle ore dei pasti, mentre noi avevamo tessere per comprare
alimenti, che non servivano molto, visto che gli alimenti non c’erano.
Tutte le mattine partivano i “sidecar” con tre uomini. La sera tornavano le
motociclette col carrozzino spesso vuoto.
A turno, i soldati avevano un giorno di vacanza, ogni settimana.
Una mattina uno di loro, nel giorno di riposo, disegnava seduto sul prato di
fronte alla casa.
In quei tempi anch’io mi divertivo, di quando in quando, a scarabocchiare su
fogli di carta da disegno.
Mi sembrò quasi un collega e poiché non aveva molti anni più di me, mi feci
coraggio e provai a parlargli.
Naturalmente sia io che lui ci intendevamo più con gesti delle mani e della testa
che con le parole.
Mi mostrò il paesaggio che cercava di riprodurre e mi sembrò di capire che
quel pomeriggio sarebbe dovuto partire per il fronte.
- “Paura” ripeteva, “Paura”.
Io non riuscivo a intendere: era lì, senza nessuno che lo sorvegliasse, sapendo
che dopo alcune ore sarebbero venuti a prenderlo per portarlo al fronte, da
dove non sarebbe tornato e con una gran paura .
Sapeva benissimo che i tedeschi avevano già perduto la guerra. Aveva davanti a
sé chilometri di campi e colline boscose e non pensava neppure a fuggire.
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Gli chiesi più volte perché non se ne andava.
- Ordini… ordini… ja… dodici, venire -
Gli avevano detto che sarebbero venuti a prenderlo alle dodici e lui aspettava.
Io mi convinsi che i tedeschi erano molto disciplinati, ma anche un po’ stupidi.
Non so per quale motivo, ma non lo rividi più.
***
C’erano altri soldati, un po’ più anziani, sposati, che bisognava evitare, perché
appena potevano tiravano fuori dalla tasca il portafoglio con le foto della
moglie e dei figli e non c’era modo di cambiare argomento
***
Una volta accompagnavo mio padre per una stradina di campagna ed incontrammo
un tedesco con i capelli rossi, che aveva voglia di fare amicizia. E parlava,
parlava sorridendo, ma sempre in tedesco e noi non capivamo niente.
Smise quasi subito di sorridere appena cominciò ad udirsi il rombo, sempre più
forte, di una squadriglia di quadrimotori che si avvicinava.
Non c’era pericolo perché eravamo in aperta campagna, ma lui cominciò a tremare
e quando il rombo dei motori si fece più forte, si gettò bocconi sul campo
al bordo della stradina, nascondendo la faccia tra le zolle del terreno arato.
Quando gli aerei furono passati ed erano già lontani, il soldato si alzò e con l’espressione
della faccia un po’ stralunata ripeteva:
- Russia… Russia.
Capimmo che lo avevano mandato in Italia dopo essere stato sul fronte russo.
Si era salvato, ma quella dev’essere stata una esperienza terribile.
***
C’era vicino alla nostra città un ponte, chiamato “i sei ponti” perché aveva sei arcate.
Faceva parte della linea ferroviaria Roma-Ancona e pertanto era molto importante.
Nell’ultimo periodo dell’occupazione tedesca, quasi ogni settimana, una squadriglia
di bombardieri, non so se inglesi o americani, tentava di demolirlo
lasciando cadere una miriade di bombe.
Il bello era che il primo aereo della squadriglia accennava appena una “picchiata”
per avvicinarsi al bersaglio, ma tutto il resto del gruppo lasciava cadere il
carico senza neppure provare ad abbassarsi.
Erano prudenti!
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Naturalmente da quell’altezza era impossibile colpire il bersaglio e le bombe
solo cavavano grandi crateri nei campi.
Noi ragazzi, quando potevamo osservare la scena, sempre la stessa, da una
doverosa distanza, ci scherzavamo sopra.
***
Dato che eravamo sfollati, io non andavo a scuola.
All’inizio, alcune professoresse venivano periodicamente in una cascina, chiamavano
tutti gli studenti dei dintorni, facevano una specie d’esame ed assegnavano
i compiti per la volta seguente.
L’insegnante d’italiano, molto giovane, mi disse di memorizzare non ricordo
quanti versi di un certo capitolo dell’Eneide. E mi annotò i numeri del capitolo
e dei versi.
Per una distrazione, mi aveva indicato l’episodio che trattava dell’incontro di
Didone ed Enea: “e testimoni ne furon il buio e l’antro…”
Quando, nella lezione seguente, mi chiese di recitare i versi ed ascoltò di che si
trattava, arrossì visibilmente.
L’incidente fu molto divertente per me ed i miei compagni
***
Per mia fortuna c’era la villa di un marchese, a non grande distanza da dove
vivevamo noi.
Il padrone di casa era tutto un personaggio. Faceva parte della guardia nobile
del papa, che a quei tempi esisteva ancora. Aveva una moglie americana ed
una squadra di figlie, di tutte le età, una più bella dell’altra.
Loro avevano una biblioteca ed il nipote del padrone di casa era un mio coetaneo
ed io lo conoscevo. Così, periodicamente percorrevo a piedi, tra i campi, il
cammino sino ad arrivare alla residenza del mio amico, il quale mi prestava tutti
i libri che potevo portare sotto le due braccia. Avevano una biblioteca.
In casa nostra non c’era luce elettrica. Le centrali che la producevano erano state
distrutte.
Io, con un barattolino vuoto di concentrato usato per fare il brodo e che aveva
il coperchio di latta, avevo fatto una specie di lampada. Uno spago attorcigliato,
che attraversava il coperchio e pescava nell’olio del recipiente, era lo
stoppino. Così potevo leggere tutto il giorno e gran parte della notte.
Naturalmente la mattina seguente avevo la faccia coperta dal nerofumo ed il
soffitto della stanza non era più esattamente bianco.
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Un giorno, mentre ritornavo a casa con i libri, arrivarono gli aerei per ripetere
il bombardamento usuale dei “sei ponti”.
Io, pur essendo a notevole distanza dal bersaglio, atterrito dalle esplosioni e dai
bagliori degli scoppi delle bombe che cadevano da tutte le parti, lasciai cadere
i libri ed abbracciai il tronco di una grande quercia, a lato dello stradello, aspettando
ad occhi chiusi la fine di quel finimondo.
Terminato il bombardamento, con le gambe tremanti, raccolsi i libri e, vicino a
questi, trovai una di quelle piccole eliche, di dieci centimetri di diametro, che
servivano ad attivare la spoletta delle bombe.
Non si era rotta. Con lo scoppio era volata fino a me. Era di alluminio. La raccolsi
e la portai a casa. L’ho usata come fermacarte, per tanti anni.
***
Un bel giorno si sparse la voce che erano arrivati gli americani.
Effettivamente i tedeschi, di notte, avevano abbandonato la villa.
Di primo mattino un solo carro armato tedesco, non molto grande, percorse
il tratto di strada del fondo valle, che si poteva osservare comodamente da
casa nostra.
Erano quattro o cinque chilometri di asfalto rettilineo.
Passammo il resto del giorno fuori casa o sul terrazzo per scorgere qualche
indizio dell’arrivo dei “liberatori”. Non avevamo la minima idea di come
sarebbe avvenuto.
Nel pomeriggio inoltrato vedemmo in lontananza una strana automobile, mai
vista prima.
Era una “jeep”, che si fermò subito per un buon quarto d’ora, lontano. Poi percorse
un tratto di strada per fermarsi nuovamente e così per tutto il percorso.
Erano molto, molto prudenti i… “liberatori”!
Non sapevano evidentemente che i tedeschi avevano abbandonato la zona e
non volevano arrischiarsi troppo.
Era già quasi notte quando la ”jeep” fece dietro front e scomparve dalla parte
da dove era venuta.
Erano quelli gli americani che aspettavamo?
Lo erano.
Infatti il giorno seguente comparvero autocarri con un rimorchio che aveva
tante ruote piccoline e che trasportavano carri armati Sherman.
Questi sì, erano carri armati pesanti!
E gli autocarri, uno dopo l’altro, formavano una fila che si snodava lentamente.
Il passaggio degli autotrasporti continuò per due giorni.
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Alla fine, quando terminò, non c’era più asfalto sulla strada. Era stato polverizzato.
Questo servì a farci meditare sulla pazzia che era stata fatta al voler combattere
con “quattro milioni di baionette”, come diceva la propaganda, contro un
esercito con simili mezzi.
Già avevamo avuto lo stesso pensiero quando erano cominciati i bombardamenti
e vedemmo per la prima volta le squadriglie di aerei quadrimotori. In
Italia non c’erano quadrimotori
In tutti gli anni di guerra io non avevo mai visto un nostro carro armato delle
dimensioni degli Sherman, né un quadrimotore.
***
Durante cinquanta anni, dopo la fine del conflitto, ho visto tanti film , con
soldati molto coraggiosi e ligi al loro dovere.
Eroi da medaglia.
Ma loro non erano certo i soldati che avevo visto io, durante tutta la guerra.
Nei film ci sono sempre eroi. Eroi così, io non ne ho mai visti.
“O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero”.
Forse i personaggi di questo racconto sono stati tutti eroi… siamo stati tutti
eroi… veri.
SPAGHETTI ITALIANI
Erano trascorsi sette anni da quando avevo cominciato a lavorare in Argentina
e l’Istituzione dalla quale dipendevo mi assegnò una borsa di studio per trascorrere
nove mesi presso una fondazione internazionale, in un altro paese dell’America
del Sud.
Io partii per primo e la mia compagna mi raggiunse dopo un mese.
Impiegai questo primo mese per conoscere l’agricoltura di una vasta regione.
Nel paese c’era stata una riforma agraria, in tempi già lontani, con la quale si
era cercato di dare terra da coltivare a tutte le famiglie.
Naturalmente, ogni famiglia aveva una superficie molto piccola.
In una occasione vidi una casa in legno costruita su tronchi d’albero, all’altezza
di circa due metri dal suolo. Sotto il pavimento della casa erano racchiusi gli
animali domestici, in modo da avere maggiore superficie coltivabile.
Così dovevano essere state costruite le abitazioni dei villaggi di palafitte della
preistoria, ma gli agricoltori erano abbastanza contenti della loro situazione e
potevano vivere.
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Quando la mia compagna mi raggiunse, ci trasferimmo nella città capitale,
dove era l’Università ed il mio ufficio presso la Fondazione.
Da allora cominciammo a trascorrere i fine settimana nei luoghi di turismo. E
lei era entusiasta del paese che vedeva andando in auto per le autostrade, nel
circuito turistico.
Solo io sapevo che era sufficiente inoltrarsi in una delle tante strade di terra ai
lati dell’asfalto per incontrare i villaggi dei contadini con i loro piccoli appezzamenti
di terreno coltivato a mais.
Negli anni seguenti le cose cambiarono molto.
Furono trovati ingenti giacimento di petrolio.
Un giorno facemmo la conoscenza della moglie dell’addetto culturale presso il
consolato italiano del luogo.
Nella loro famiglia, finalmente, si poteva parlare italiano.
In casa, avevano pezzi di roccia con incrostati cristalli di smeraldo bellissimi.
Li avevano comprati in non so quale paese dell’America del Sud, dove esisteva
una miniera e li usavano come ornamento, appoggiati sui mobili.
Il loro figlio maggiore ci raccontò una sua ultima avventura, molto eccitante
per persone che vivevano nel mondo diplomatico.
Salendo sull’ascensore di un edificio statale della città, per partecipare ad una
conferenza, si era trovato solo con una ragazza, che credette avesse più o meno
la sua età.
E lui la trattò da uguale, parlando e scherzando.
Poi volle accompagnarla nel salone dove si svolgeva l’evento e fu sorpreso nell’osservare
come la ragazza venisse salutata e lasciata passare con evidente
grande rispetto.
Messo in sospetto, fece in modo da poter chiedere ad un cameriere se sapeva
chi fosse la sua compagna.
- È la moglie dell’ambasciatore di…, una delle grandi potenze.
Naturalmente lui si affrettò a prendere le distanze, spaventato per il suo ardire
Poi ci sedemmo tutti a tavola, per cenare.
Sulla tavola c’era un fiasco di Chianti, di quelli impagliati, un panforte di Siena
e, naturalmente, spaghetti italiani.
Che buoni!
Noi che da tanti anni vivevamo all’estero, sapevamo quanto fosse difficile trovare
quel ben di Dio, anche se la cosa non era impossibile.
E poi venne uno zampone di Modena ed allora fu impossibile trattenersi dal
chiedere dove comprassero tutte quelle buone cose.
- Vengono dall’Italia, ci dissero.
Doveva costare l’ira di Dio importare quei prodotti per l’alimentazione quotidiana.
30
Solamente più tardi, ritornando a casa, la mia compagna mi disse che la padrona
di casa le aveva confessato all’orecchio: valigia diplomatica!
RITORNO ALLA PREISTORIA.
NASCITA DELLA “SEMINA DIRETTA”
L’uomo divenne agricoltore quando imparò a fare piccoli buchi nel terreno ed
a riporvi i semi. Poi qualcuno costruì una specie di aratro capace di aprire un
piccolo solco superficiale. Poi furono inventati gli aratri veri, prima di legno,
poi d’acciaio.
E Newton e Leibniz insegnarono a calcolare le forze ed i movimenti delle zolle
che si rovesciano su se stesse, coprendo di terra la vegetazione spontanea.
Aumentò così, enormemente, la produzione agricola ma aumentò anche l’erosione
del suolo.
Nel 1964, io stavo già lavorando in una Stazione Sperimentale Agricola, in
Argentina ed avevo disegnato alcuni esperimenti per approfondire la conoscenza
della dinamica dell’acqua nel suolo. Il disegno sperimentale comprendeva
anche parcelle con colture seminate su terreno arato e non arato. Secondo
quanto previsto le piante coltivate avrebbero dovuto crescere bene, nelle
parcelle arate e male, in quelle non arate. Ricordo ancora la mattina quando
l’incaricato del campo, con una faccia molto preoccupata, si precipitò nel mio
ufficio e mi chiese:
- “Dottore, come faccio io a seminare in un suolo non arato?” – Lo rassicurai
spiegandogli lo scopo e la maniera di procedere e dicendogli che avremmo controllato
la crescita della vegetazione spontanea mediante l’uso di prodotti chimici.
Le cose andarono, all’inizio, come avevamo previsto. Le piantine nacquero
stentatamente nelle parcelle non arate. Lo sviluppo della vegetazione
migliorava sensibilmente man mano che aumentava la profondità della rimozione
del suolo.
Alcuni professionisti, dipendenti di grandi società dedicate all’agricoltura, si
mostrarono interessati a questa ricerca. Venivano a visitarmi di quando in
quando ed io li guidavo sino al campo sperimentale. Non portavo con me il
disegno dello stesso perché i trattamenti si potevano intuire dalla differenza in
altezza della vegetazione. Ma un giorno, dopo qualche tempo dalla semina, una
volta arrivato con alcuni ospiti al campo sperimentale, non fui più in grado di
distinguere le parcelle con e senza rimozione del terreno. Rimanemmo tutti
molto meravigliati. Ancor più io lo fui, quando ottenni i rendimenti in grano
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corrispondenti ai diversi trattamenti. Non c’erano differenze apprezzabili tra
il rendimento delle parcelle arate e non arate. Meglio non riportare i commenti
del personale della Stazione Sperimentale. Il più benevolo era quello che mi
consigliava d’andare in manicomio, se credevo davvero di poter seminare in
quella maniera i campi della zona.
L’esperimento fu ripetuto negli anni seguenti, ma era molto difficile far accettare
la filosofia di “questa nuova” e “preistorica”, tecnica colturale. É naturale…
dopo i millenni nei quali era stato usato l’aratro!
Ora la semina su terreno non arato è molto diffusa nella “Pampa” e, per quanto
ne so, anche in Africa e in altre parti del mondo.
Si chiama “siembra directa”, “no till”, “no tillage”, “labranza cero”.
Aiuta molto a risolvere il problema della conservazione del suolo, specialmente
nei paesi nei quali è rimasto qualcosa da conservare.
Non ha avuto molta diffusione in zone dell’Asia e dell’Europa, dove l’uso millenario
dell’aratro ha causato già tutta l’erosione che era possibile provocare.
Ora si parla molto di desertificazione ed erosione. Ma non bisogna dimenticare
che, quando gli spartani difendevano le Termopili, la larghezza del passaggio
occupato da quei trecento eroi, non era molto grande. Ora, tra un lato e
l’altro del valico delle Termopili, ci sono chilometri.
Questa è l’erosione.
PRESIDE E ANZIANO
Alto, magro, quasi un “don Chisciotte”, fumando il suo eterno sigaro toscano.
Questi era il preside dell’Istituto Tecnico Agrario nel quale avevo ottenuto
l’incarico di insegnare, non appena laureato. Quando ci si riuniva nella sala dei
professori, aveva il vezzo di ripetere: “Io, preside e anziano…”. La frase serviva
per far prevalere le su
NUGAE I
(riflessioni e ricordi di un vecchio emigrato)
MARCELLO FAGIOLI
Prima parte
Homo insciens
L’uomo chiamò se stesso homo sapiens, ma è stato troppo presuntuoso.
In un dizionario latino leggo, sapiens: intelligente, ragionevole, prudente, saggio e, pensandolo bene, nessuno di questi termini si addice all’uomo, oggidì.
Poi c’è l’altra definizione: re del creato. Ma se fino a qualche decennio fa non avevamo nemmeno un’idea dell’immenso universo che ci circonda e che le sonde spaziali non ci hanno ancora rivelato a sufficienza!
Non è neppure il caso di parlare dell’atomo, che oggi sembra essere costituito da un numero tanto grande di particelle che Fermi, un grande della fisica moderna, non poté trattenersi dall’esclamare: se l’avessi immaginato mi sarei dedicato alla botanica , riferendosi all’enorme numero di specie vegetali.
E sembra che il Creatore non avesse, neppure lui, molta stima delle nostre capacità. Ha dato all’uomo la ragione, ma non se ne è fidato per far funzionare l’organismo. Infatti gli apparati: respiratorio, circolatorio e tutti gli altri, che per milioni d’anni non abbiamo neppure sospettato che esistessero, sono autonomi.
A me capita, quando sono solo, di dover riscaldare o cucinare qualche vivanda e spesso, se sto leggendo o facendo qualcosa che mi interessa veramente, me ne ricordo solo quando sento odore di bruciato.
Cosa succederebbe se accadesse la stessa cosa con un apparato circolatorio, dipendente solo dalla mia volontà?
“Al di là del bene e del male”
La mia compagna mi ha lasciato, dopo cinquant’anni di vita in comune.
La senilità può dar origine a malattie terribili, che portano alla perdita della capacità di vivere degnamente. Ma io volevo che lei stesse ancora accanto a me. E quindi continui ricoveri in clinica e una quantità incredibile di medicine. Gli orari di una vita normale sostituiti dalla necessità di assumere pastiglie ad intervalli costanti.
È poi le necessità di alimentarla. Prima un sondino naso-faringeo, poi la sonda gastrica, completata dall’uso di una grossa siringa e l’istallazione di una guida centrale per l’idratazione mediante siero. E gli orari, la stanchezza crescente nei mesi successivi, il bisogno sempre presente di un sonno riparatore. È poi i medici sempre meno solleciti, dopo le prime visite, una volta resisi conto della gravità della malattia.
Ma io la volevo accanto a me ancora per un po’ di tempo, sempre un po’ di tempo ancora. E, visto che non poteva parlare, volevo che almeno accennasse un sorriso. È pretendevo che le assistenti la facessero sorridere, anche se per poco. Era l’unico indizio che mi faceva pensare, che mi faceva sperare che fosse d’accordo con me, per vivere ancora un po’.
E la lotta era continua, giorno dopo giorno. Lotta contro chi? Contro cosa?
Lotta inutile. Però alcune volte lei sorrideva.
Mi hanno scritto che ciò che si fà per amore è sempre al di là del bene e del male. Chissà perché si cita con tanta frequenza Nietzsche, quando i suoi scritti sono così pesanti da leggere. Ma i titoli dei suoi libri sono splendidi: La gaia scienza, Così parlò Zaratustra, Il crepuscolo degli idoli, Ecce homo.
Poesia, filosofia e speranza
Si può scrivere ciò che si vuole ma alla fine dello scritto ci deve essere sempre accennata una speranza. Nessuno vuole leggere scritti che non suscitino speranza. Anche i romanzi gialli, con il morto, suscitano speranza, perché l’assassino è sempre punito.
I canti di Leopardi sono poesia, pittura e musica, tutt’uno all’inizio, ma hanno sempre un finale amaro. Non c’è speranza.
Croce scrisse che la categoria poesia è una cosa e la categoria filosofia un’altra e che Leopardi le ha confuse.
Sarà… ma!
Intelligenza è capire
Sono passati più di quattro milioni d’anni da quando l’ardipithecus ramidus visse in Etiopia e, forse, diede origine a discendenti che a loro volta diedero origine all’homo sapiens. Viene il mal di testa quando si cerca d’immaginare un tempo così lungo, ma tutto questo tempo è stato necessario per arrivare ad un umano con un po’ d’intelligenza e qualche sentimento, che lo differenzi da tutti gli altri animali
Ma forse non è così.
Alcuni anni fa camminavo fuori città per una passeggiata e, se possibile, per cacciare qualche animale con un fucile di piccolo calibro che portavo con me. Non incontrai selvaggina degna di questo nome. Solo alla fine, già sulla via del ritorno, due grossi uccelli volarono da un albero all’altro, sul bordo della strada.
Quando sparai, uno dei due cadde al suolo. L’altro fuggi, volando sino all’albero seguente, lontano una decina di metri. A questo punto si voltò verso di me e cominciò a gridare. Sembrava che protestasse con tutto il fiato che aveva. E man mano che avanzavo lui volava sull’albero seguente, allontanandosi e gridando sempre più forte. Era disperato.
Non è questa intelligenza? Non è sentimento? Il povero uccello aveva capito che il suo compagno era morto e si ribellava e gridava. Era l’unica cosa che poteva fare. Non riesco a capire come Cartesio potesse affermare che il dolore, negli animali, non è vero dolore, ma solo un riflesso.
Sono stati necessari milioni di anni per l’uomo e sicuramente anche per quell’uccello, per arrivare all’intelligenza. E milioni di anni sono tanto, tanto tempo. Le matematiche che si usano per studiare il comportamento di particelle molto, ma molto piccole, oltre certe dimensioni, sembrano indicare che il tempo si confonde, a questo punto, con lo spazio. Chissà cosa significa. Forse, in queste dimensioni , milioni di anni non sono poi tanto tempo. Arrivati a questo punto meglio non pensare.
Io ho trascorso molto tempo della mia vita lavorativa a far calcoli con una calcolatrice manuale. Non c’era il PC ed ho passato altrettanto tempo a leggere. Ho osservato quanto appaiono semplici le cose che si sanno veramente. Tutto quanto è complicato e difficile da intendere ci dice che in realtà non conosciamo l’argomento. Sino a poco tempo fa si sorvolava su questo scrivendo in latino, per es.“vis vitalis” o “ipse dixit” o usando frasi fantasiose come “generazione spontanea”.
Ai nostri giorni il trucco non funziona più.
Serenità
H. Hesse ha scritto un piccolo libro che narra la vita di Siddharta, un eremita che si incontra con il Budda, l’illuminato. Questi promette insegnargli cos’è il dolore e come evitare il dolore, ma Siddharta, anche lui illuminato, gli risponde che lui non cerca questo.
Lui cerca la verità.
Poi Siddharta scopre la vita mondana, che abbandona per vivere nuovamente da eremita presso un fiume, in cerca della verità. È l’unica verità che scopre è l’unità. L’unità del fiume, con le sue sorgenti tra le montagne, le acque correnti verso le pianure, la foce. E lui intende che c’è una unità del tutto. Ogni cosa fà parte di un tutto e anche l’uomo fà parte di un tutto.
Questa sembra essere la verità. Ma questa verità può dare la serenità ? L’uomo spera solo poter raggiungere la serenità. Ma è difficile.
Recentemente, Teresa di Calcutta rassicurava le sue consorelle dicendo loro che lei viveva serena e fiduciosa. Ma le lettere che scriveva al suo vescovo, rese note dopo la sua morte, e che lei non riuscì a far bruciare mentre era in vita, rivelano disperazione.
Perché Dio è silenzioso? E chiama Cristo “il grande assente”.
Dubbi…sempre dubbi!
Benedetto VI, visitando il campo di Auschwitz, ha esclamato: Signore… come hai potuto permettere questo?
Non dubbi ora, ma rimprovero.
Solo favole
Tutti gli organismi sopravvivono per merito dell’apoptosi. Le cellule vecchie e difettose ricevono l’ordine di morire e vengono sostituite da cellule giovani e sane.
L’organismo sopravvive , ma le singole cellule muoiono e sembrano non avere molta importanza. La stessa cosa avviene nell’ambito delle specie. La sopravvivenza degli individui sembra non avere importanza. È importante solo la sopravvivenza della specie. Ma poi, dopo un lungo tempo, anche le specie scompaiono.
Allora cos’è importante veramente?
La cellula, l’individuo, la specie sono parte di un tutto. Questo è importante. È questo che dice Siddharta? Se così, forse aveva ragione Budda ad insegnare cos’è il vero dolore e come evitarlo, perché è meglio evitarlo. Non possiamo far altro. E non si dovrebbe aver paura della morte e di un aldilà misterioso, che non è altro che il ritorno a quel tutto originario, che tanto spaventa l’uomo e forse anche ogni altro animale. È quello spavento ci induce ad accettare e dire di credere tante favole che , in fondo, sappiamo sono solo favole.
Bellissime favole quelle che gli antichi ebrei scrissero nei loro libri. Ma poi vennero i profeti , si organizzò una chiesa e la burocrazia, e tutto divenne un incubo per la vita quotidiana degli uomini. Dominare e non dare spiegazioni e serenità, divenne il fine.
“La cosa in sé”
Sant’Agostino, vescovo d’Ippona, nel Nord’ Africa, era un kantiano ante litteram.
Infatti mentre passeggiava sulla spiaggia, meditando sulla trinità, incontrò un fanciullo che, con una conchiglia, secondo un quadro del Botticelli, raccoglieva acqua dal mare e la versava in un buco nella sabbia. Quando Agostino chiese cosa stesse facendo, rispose:
-Voglio mettere il mare in questo buco.
-È impossibile… esclamò Agostino.
-E perché allora tu vuoi intendere il mistero della trinità? E il fanciullo scomparve.
Anche Kant afferma l’impossibilità di conoscere la “cosa in sé”. Si può conoscere solo come consentito dal modo di funzionare, dalla fisiologia del nostro cervello . Chissà quant’altre verità esistono nell’universo che noi non sappiamo, né possiamo immaginare. Un indizio ci è dato dalle radiazioni cosmiche che penetrano dappertutto, anche nelle rocce e che noi non sentiamo, né vediamo. Possiamo solo registrarle con apparati. E chissà quanti organi e quanti apparati ci mancano ancora per aver sentore di altre realtà. Che peccato non poter dormire per cent’anni e poi svegliarsi. Quante conoscenze nuove ci sarebbero!
“Il vecchio…e la guerra civile”
Oggi ho incontrato un conoscente. Un emigrato molto vecchio. Da giovane non era molto alto, ma ora è rimpicciolito. Ed ha saputo dire solo: Buon giorno! Come sta? È la salute? È pensare che era una testa matta, fuggito dall’Italia nell’immediato dopoguerra perché seguace di Mussolini durante la Repubblica di Salò. Molto giovane ed entusiasta del fascismo, lui e i suoi compagni. E quanto fervore, quanto amor di patria! Quanta ricerca d’avventure! Un vero guerriero. E che delusione, che dolore veder svanire i sogni, coltivati per tanti anni, d’un Duce guida, sempre vittorioso e d’una patria grande. Ora stava davanti a me, curvo e rimpicciolito, col passo esitante, incapace di sostenere una qualsiasi conversazione.
Questo è ciò che aspetta l’uomo alla fine della vita. E non è neppure il finale peggiore.
Gastronomia barbara
Sul finire della guerra, la seconda guerra mondiale, le truppe americane occuparono Fabriano, nelle Marche e, tra le altre cose, si fecero carico dell’ospedale.
Un giorno ero andato a trovar mio padre che lavorava nell’ospedale e, nei corridoi, vidi i carrelli nei quali venivano portati gli alimenti agli infermi. Che sorpresa! Nei piatti c’erano spaghetti, ma erano stracotti, come si poteva osservare guardando il loro spessore. Noi diciamo: colla per manifesti . E, a lato, una buona porzione di marmellata.
Spaghetti con la marmellata! Una cosa inaudita, mai vista. Duemila anni di tradizioni culinarie stravolti tanto irresponsabilmente! Ebbero un bel dire, i medici, che gli infermi hanno bisogno di calorie e che…
Per me, questa sì, era una cosa da eretici.
Recentemente ho ascoltato che un sud-americano voleva mangiare la pizza con il pane e che, non essendocene in casa, uscì per andare a comprarne. Come è possibile, io dico! Credo che la scomunica debba contemplare questi casi e solo questi. Non gli altri.
Pirandello
Che voglia di vivere si ha quando si esce da una grave malattia!
Anni fa, mi ammalai, mi internarono in una clinica, mi operarono. La guarigione fu lenta e difficoltosa. E un giorno la mia compagna portò una nipotina a visitarmi.
-Povero nonno, come è mal ridotto! Prima aveva una casa grande ed ora questa è piccola. Non ha neppure la cucina…esclamò la bambina.
Come cambia la realtà, cambiando il punto di vista. Per lei, importanti erano la casa grande e la cucina, non l’infermo, che stava meglio.
Pirandello, che affermava questo, all’inizio del secolo scorso, merita una maggiore considerazione. Bisogna rileggere: Così è (se vi pare).
Epigoni
Bisognerebbe studiare i sentimenti dei discendenti degli italiani che vivono in Argentina.
In alcuni casi si osservano grandi manifestazione d’amore per l’Italia. Altre volte un cupo risentimento, anche se raramente esteriorizzato.
È vero, i loro padri, i loro nonni furono obbligati ad emigrare. Lasciarono miseria e trovarono duro lavoro, nei vasti campi argentini. Alcuni sono riusciti ad emergere, molti no. Solo dopo una o due generazioni i discendenti si sono sistemati con un impiego, una professione o con una terra agricola. Ed i vecchi ne erano orgogliosi. Mio figlio, il dottore, era una frase che s’ascoltava spesso. L’Italia aveva abbandonato gli emigrati. Loro s’erano fatti strada da soli, in una forma o nell’altra. E i loro figli e nipoti si erano sistemati degnamente.
Ma figli e nipoti ricordano. E molti non amano che si rammenti loro l’origine…le radici. Dicono di capire quando si parla loro in italiano. Ma non è così. L’Italia, con i suoi millenni di civilizzazione, con la sua cultura irripetibile, che lascia stupefatti quando ci si avviciniamo ad essa, non ha saputo far sì che i suoi epigoni conservassero la lingua d’origine.
“L’uomo, la bestia…ed il mantello”
Noè, il patriarca, fu ben consigliato e piantò la vite. Fu mal consigliato e si ubriacò. Noè era solo, ubriaco e nudo come un verme, in una stanza. Due suoi figli presero un mantello e, camminando all’indietro per non vedere la nudità del genitore, lo raggiunsero e lo coprirono.
Si ha l’impressione, leggendo il sacro testo, che il male consistesse nella nudità dell’uomo più che nella ubriachezza. Forse il vestito era, a quei tempi, ciò che rendeva più manifesta la differenza tra l’uomo, anche lui un animale, e la bestia.
Era l’evidenza della supremazia. Era l’evidenza dell’intelligenza.
“Perch’i’ no spero…”
Perch’i’ no spero di tornar giammai…
Neanch’io spero di tornar giammai a vivere quei giorni lieti, sereni: come quando c’eri tu…
Che differenza c’è tra un verso di Cavalcanti e quello di una canzone napoletana?
Cinquecento anni, sì, ma la stessa malinconia, la stessa voglia di piangere.
Fede ed economia
Riscaldamento globale, chiamano le irregolarità atmosferiche che stanno minacciando il mondo. E hanno dato un premio Nobel a un politico che fà propaganda per risparmiare energia e diminuire, solo diminuire, l’inquinamento. Case ecologiche, utilizzazione del vento e del sole, cattura dell’anidride carbonica e del metano, conservazione dei residui vegetali in superficie e tanti altri accorgimenti. Anche la semina diretta, in agricoltura, serve.
Non sarà questa una maniera di cambiare tutto, affinché tutto rimanga come prima, secondo una felice frase di Lampedusa?
È nessuno sembra accorgersi che il vero problema, quello di fondo, è un altro. Gli uomini che abitano questo nostro mondo sono ormai troppi. Settemila milioni sono molti. È tutti vogliono viver bene e, per ottenere benessere, causano molti danni. Contaminano la terra, l’aria e l’acqua.
Si può risparmiare energia e quindi petrolio, gas, carbone. Si può diminuire la contaminazione ma, in un prossimo futuro, aumenterà la popolazione. Aumenteranno i consumi, aumenterà di nuovo la contaminazione ed il problema sarà sempre più grave
È un circolo vizioso dal quale non si esce, se non si delimita bene la causa. Ma di questa causa si evita parlare, per motivi di fede e d’economia. Le principali fedi predicano la riproduzione, ora, come nei millenni trascorsi, quando il mondo doveva ancora essere popolato dall’uomo.
Ed in economia ci si domanda come si potrà dar lavoro, aumentare le produzioni ed i profitti con una popolazione in diminuzione. Che bel dilemma!
Ma le autorità deviano l’attenzione sul riscaldamento globale e sul risparmio del petrolio. Tutte cose che non limitano la crescita della popolazione mondiale e quindi dei consumi, e non infastidiscono le autorità religiose.
C’è qualcosa, nelle leggi economiche attuali, che porta alla distruzione.
Cavalieri dell’aria
Hitler, un allievo di Mussolini, utilizzò la retorica ed il nazionalismo per ottenere il potere e porre ordine nel caos economico del dopoguerra, in Germania.
Ma c’è un fatto che raramente viene ricordato. Verso la fine della prima guerra mondiale, quando già tutti erano convinti della sconfitta, l’esercito tedesco era demoralizzato. Per conservarne il controllo, il comando degli imperi centrali ebbe una grande idea. Scelse, tra i militari, persone capaci di parlare, capaci di convincere con il loro carisma. Diventati bravi retori, avrebbero dovuto sollevare l’animo dei soldati. E si insegnò loro la retorica che, nell’antica Grecia ed a Roma, aveva dato tanti buoni risultati.
Ma tra loro c’era un certo Hitler che, dopo la disfatta, continuò ad ad arringare la gente, nelle piazze, nelle birrerie, nei bar. È la retorica ancora una volta diede risultati. Nacque un movimento, poi un partito che conquistò il potere. Seguì la guerra e la distruzione.
Tra i primi aderenti al movimento di Hitler c’erano molti militari ed anche un certo Goering che era stato il secondo del barone rosso , von Richthofen, l’ eroe della nascente aviazione, che tutto il mondo ammirò ed ammira ancor oggi. Un cavaliere dell’aria che, dopo aver abbattuto un aereo nemico, scese a terra e brindò con il vinto, rimasto in vita. Ed anche Goering fu un eroe, accettato come tale nel partito nazista, non più ammirato dopo la seconda guerra mondiale.
Come è possibile che siffatti eroi cambino col tempo e le circostanze, sino a divenire nemici dell’umanità?
sono residente in italiadal 2006 , il mio nono era nato nel 1903 a bari bitonto , e vorrei sapere piu cose di lui he vedere si ci sono dei parenti
Tutto un mondo, nei libri
In una stazione sperimentale, in Argentina, mi assegnarono un un giovane, laureato di recente, affinché si familiarizzasse con il lavoro che stavamo svolgendo.
Una volta, parlando del più e del meno, gli chiesi se gli piaceva Jack London.
-E chi è- mi rispose.
-È l’autore di Zanna Bianca, Martin Eden, Il richiamo della foresta. Li avrai letti, immagino.
Un secco no, fu la risposta.
-Ma allora cosa ti piaceva leggere, quando eri ragazzo? Dostoievski, Tolstoi?
-No. Noi leggevamo giornaletti.
Non insistei. Però pensavo a quando io ero ragazzo e passavo gran parte del tempo libero leggendo.
Ci fu un anno in cui avevo preso l’abitudine di leggere prima di dormire ed ogni giorno leggevo qualche pagina in più del giorno precedente, sino ad arrivare a spegnere la luce ai primi chiarori dell’alba. Fu abbastanza difficile adattarmi di nuovo ad un orario normale.
Nel vecchio palazzo dove abitavamo, non lontano dal grande portone d’entrata, c’era un corridoio stretto che portava a due stanze indipendenti, nelle quali mio padre conservava i suoi libri. Mio padre si era laureato a Bologna nella prima metà del novecento e, con i suoi amici, aveva l’abitudine di andare a teatro dopo cena. Tutte le volte che vedeva una nuova commedia comprava il libro corrispondente. Tutti quei libri, ora, erano conservati nelle due stanze. Quando li scoprii, cominciai a leggerli.
Alcuni libri scomparvero immediatamente. Mio padre non riteneva fossero adatti alla mia età.
Scomparve il De profundis del dandy inglese Oscar Wilde, ma potei leggere Il suo Principe felice.
E scoprii Pirandello, con i suoi magnifici dialoghi. Splendido mi parve Liolà, ma non degno della sua bravura Il fu Mattia Pascal. Bello l’Enrico IV, che deluse tanti spettatori che si aspettavano di vedere un dramma storico. Mi diedero molto da pensare i Sei personaggi in cerca d’autore e Così è(se vi pare). Ricordo Pel di carota, di Renard, Cyrano de Bergerac, di Rostand, Sly di Forzano e le bellissime opere scritte da Sem Benelli: La cena delle Beffe, l’Arzigogolo, L’amore dei tre re.
Il povero Sem Benelli, con i guadagni dei primi successi, aveva costruito un castello a picco sul mare, che poi non poté mantenere e visse nella casetta destinata al custode.
Non credo che tutte queste opere siano molto rappresentate oggidì. Solo i vecchi, possibilmente, le ricordino. Ma in quelle due stanzette, da ragazzo, trovai tutto un mondo nuovo, che arricchì la mia vita di quel tempo.
mi chiamo Carlo Salis, sono il nipote di Salis Guglielmo che emigrò in Argentina nel Maggio del 1913. Dopo un po si fece chamare giuseppe invece che Guglielmo, lasciò in Italia la Moglie Giuseppa e tre figli in tenera età, la più piccola aveva 9mesi. Appena arriavato in Argentina mio nonno Guglielmo scriveva a mia nonna di andare assieme ai tre figli ( mio padre nato il 31 Maggio del 1908, mio zio Angelo nato dnel 1910,mia zia Enrichetta nata nel settembte del 1912)mia nonna era terrorizzata per il viaggio di un mese che bisognava fare e per questa ragione rimase in Italia. Dopo alcuni anni si persero le tracce di mio nonno,non si trovava più,nonostante le ricerche di mia nonna Giuseppa e di mio padre Giuseppe: furono utilizzati tutti canali comprese le ambasciate e il ministero degli esteri Italiano; di mio nonno no si seppe più niente. Io ho proseguito le ricerche dopo la morte di mio padre e con un pò di fortuna ho rintracciato i nostri parenti : discendenti di mio nonno dato che lui si era risposato altre due volte in Argentina; ho iniziato via internet uno scambio di lettere con i miei parenti in Argentina. Mio Nonno riposa nel cimitero di Norberto de la Riestra in provincia di Buenos Aires . morì il 22 Maggio del 1978 alla veneranda età di 95 anni.
Carlo Salis
mi son dimenticato di dire, che mio nonno Salis Guglielmo era un esperto di armi, prima di andare in Argentina lavorava presso le poste Italiana ed era un adetto alla sicurezza,aveva sempre con se una pistola.
Carlo salis
Ringrazio Marcello Fagioli per le sue riflessioni. E’ raro trovare sul web tali scritti e sentirsi obbligati a leggerli fino alla fine traendo poi vero arricchimento d’animo.
Domenico Iannantuoni
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